«Per garantire l’inclusione reale delle persone con disabilità nello sport, è necessario agire su più livelli, che di seguito cerco di elencare per punti:
° Accessibilità strutturale, ossia piste, piscine, palestre e attrezzature che devono essere progettate per tutti e tutte, seguendo il principio dell’Universal Design (“progettazione universale”). Ad esempio, in Norvegia, molte stazioni sciistiche offrono sit-ski gratuiti e percorsi accessibili.
° Formazione degli operatori: allenatori e staff devono essere formati su disabilità e adattamenti, non solo in ottica riabilitativa, ma anche agonistica.
° Superare lo stigma culturale: spesso si vede lo sport per persone con disabilità come “terapia” e non come competizione o passione. Servono dunque campagne mediatiche che normalizzino atleti paralimpici (come Bebe Vio o Alex Zanardi) e li mostrino come professionisti, non come “eroi per forza”.
° Modelli ibridi: esempi come il basket in carrozzina misto (atleti con disabilità e atleti non in condizione di disabilità) o il para-cycling dimostrano che l’inclusione può essere realmente sportiva e non solo simbolica».
«Finalmente si considera l’atleta paralimpico alla stregua di quello olimpico, con diritti pensionistici e tutele. Poi c’è l’obbligo di adeguare strutture e regolamenti (ad esempio, tempi più lunghi per le qualifiche se necessari) e pari opportunità negli incentivi, in quanto i fondi statali devono sostenere equamente progetti paralimpici e olimpici. Questi sono tutti aspetti innovativi.
Per quanto riguarda le lacune, ne individuo tre: mancano sanzioni efficaci per chi non applica le norme (ad esempio, palestre che rifiutano atleti con disabilità), la scarsa copertura finanziaria per protesi e attrezzature sportive high-tech, ancora a carico del singolo, e infine lo scarso coinvolgimento delle Regioni, con disparità territoriali nell’offerta sportiva inclusiva».
«Se le protesi fossero erogate dal Servizio Sanitario Nazionale come “strumenti di lavoro” (per atleti professionisti o amatoriali), si avrebbe una riduzione del divario economico – basti pensare che una protesi da corsa può costare decine di migliaia di euro, escludendo molti talenti -, ma anche un miglioramento prestazionale, in quanto attrezzature adeguate (ad esempio, lame per atletica o stabilizzatori per sci) permettono di competere alla pari; infine, protesi ben calibrate evitano infortuni da sovraccarico, un problema comune per chi usa dispositivi inadatti. In Germania, il sistema sanitario copre il 90% del costo delle protesi sportive se riconosciute necessarie per l’attività».
«Per una rete efficace tra enti pubblici, sanitari e associazioni occorrono tavoli permanenti, ovvero creare gruppi di lavoro con medici, allenatori, atleti e politici, per co-progettare interventi (ad esempio il modello dei PARA Sport Hub nel Regno Unito). Poi dati condivisi: una banca dati unica su impianti accessibili, finanziamenti e buone prassi eviterebbe dispersione. E ancora, penso ad incentivi fiscali, premiando le società sportive che investono in inclusione con sgravi per palestre con corsi misti. Infine, sanità e sport devono essere integrati: in altre parole, fisiatri e ortopedici dovrebbero prescrivere l’attività sportiva come parte del percorso di cura, non solo la riabilitazione passiva».
«Prima della lesione midollare sono stato uno sportivo professionista, dopo la lesione midollare mi sono dedicato con impegno concreto a rivendicare e a difendere i diritti delle persone con disabilità. Questo mio ruolo oggi mi porta via moltissimo tempo, non riesco a conciliare le due cose. Oggi, pur dedicandomi principalmente alla tutela dei diritti, continuo a coltivare la mia passione per lo sci durante l’inverno, trovando in questa disciplina non solo un momento di svago, ma anche un’importante fonte di benessere e di riconnessione con la mia identità di sportivo».