“Nessuno ha visto. Nessuno ha ascoltato. Nessuno ha capito.”
Paolo aveva solo 14 anni e si è tolto la vita. E oggi, mentre ci affanniamo a cercare risposte, non possiamo ignorare la verità più amara: abbiamo fallito. Non solo come scuola, come comunità, come istituzioni. Abbiamo fallito come esseri umani. Perché Paolo, un ragazzo con un nome come tanti, si è spento nel silenzio. E il silenzio è sempre colpevole.
La vicenda di Paolo – l’ennesima che riporta alla luce il dramma del disagio giovanile – non può essere liquidata come una tragedia privata. Quando un adolescente decide di farla finita, non è mai solo una storia personale: è il riflesso di un sistema sociale che non ha saputo accoglierlo, proteggerlo, ascoltarlo.
È il sintomo di una malattia profonda: la perdita dei valori fondanti della convivenza civile. Il rispetto. L’accoglienza. L’empatia.
Secondo quanto emerso dalle testimonianze, Paolo aveva lanciato segnali. Frasi dette a metà, cambiamenti di comportamento, silenzi troppo lunghi. Ma tutto è passato inosservato. Non perché fosse impossibile da decifrare, ma perché guardare davvero l’altro richiede tempo, impegno, responsabilità. E di questi tempi, troppo spesso, scegliamo l’indifferenza.
La scuola – che avrebbe dovuto essere presidio di inclusione e sostegno – non ha colto il disagio. Gli amici forse hanno sottovalutato. Gli adulti di riferimento non hanno scavato abbastanza.
E ora ci si interroga. Si cercano spiegazioni. Ma la verità è che Paolo non è stato visto.
Negli ultimi anni, il dibattito pubblico ha spesso ruotato attorno all’educazione civica, ai social, al bullismo, alla salute mentale. Ma cosa ne abbiamo fatto, davvero, di queste parole?
I giovani crescono in un contesto in cui il rispetto non è più un valore vissuto, ma un concetto astratto. Dove l’accoglienza dell’altro – soprattutto se fragile, diverso, sensibile – è vista come un peso, non come una responsabilità. Dove la competizione ha preso il posto della solidarietà.
In troppi casi, chi mostra sofferenza viene stigmatizzato. Chi chiede aiuto viene ignorato. Chi si isola viene lasciato solo.
C’è una verità scomoda che dobbiamo affrontare: abbiamo normalizzato l’esclusione. Abbiamo smesso di prenderci cura gli uni degli altri. Abbiamo tolto significato al concetto stesso di “comunità”. E i più giovani, che da adulti abbiamo il dovere di guidare, sono le prime vittime di questo smarrimento collettivo.
Oggi piangiamo Paolo. Ma quanti altri ragazzi si sentono invisibili? Quanti convivono ogni giorno con un dolore che nessuno vuole vedere?
Non bastano le dichiarazioni di cordoglio. Non servono passerelle istituzionali né frasi fatte. Serve un’assunzione di responsabilità chiara, condivisa, concreta. Serve ripartire da una nuova cultura dell’ascolto e della vicinanza.
Le scuole devono tornare a essere luoghi di relazione vera, non solo di valutazione. I genitori devono trovare il coraggio di guardare oltre le apparenze. I media devono smettere di trattare queste morti come episodi isolati. E ciascuno di noi deve imparare – o reimparare – a non voltarsi dall’altra parte.
Paolo non doveva morire!
Non dite “non si poteva sapere”.
Perché si poteva.
E se oggi Paolo non c’è più, è anche perché non abbiamo voluto vedere.
Ora il minimo che possiamo fare è non dimenticare. E cambiare.
Perché nessun altro ragazzo debba pagare con la vita il prezzo della nostra indifferenza.