Coni, l’occasione mancata: una riflessione dopo il voto che ha escluso Luca Pancalli

La domanda, nel giorno in cui Luca Pancalli ha perso la partita per la presidenza del Coni è inevitabile: la sua condizione di disabilità ha inciso nella decisione finale? Quanto pesano ancora i pregiudizi che relegano certe figure, pur autorevolissime, a ruoli “di nicchia”, tematici, mai davvero chiamati a rappresentare l’universale dello sport italiano? È una domanda scomoda, forse anche ingenerosa. Ma è una domanda che va posta, vediamo come. Le elezioni per la presidenza del Coni si sono concluse e, com’è naturale in un momento così delicato per lo sport italiano, è tempo di riflessioni. Luca Pancalli, figura autorevole e competente, non è stato eletto. Un risultato che merita di essere analizzato non solo alla luce dell’aritmetica del voto, ma anche per ciò che dice — e non dice — sul presente e sul futuro della rappresentanza sportiva nel nostro Paese. Qualche settimana fa mi ero espresso pubblicamente a favore della candidatura di Pancalli. L’ho fatto con convinzione, perché ritenevo – e continuo a ritenere – che la sua figura rappresentasse un’occasione storica per imprimere una svolta culturale al mondo dello sport italiano. Per questo, oggi sento il dovere di condividere alcune considerazioni, non con spirito polemico, ma con la volontà di contribuire a un dibattito che sia all’altezza delle sfide che ci attendono. Mi sarei augurato di commentare questo voto con un sentimento diverso, sperando di poter celebrare l’elezione di un “amico”, ma soprattutto di un professionista esemplare. Eppure, anche a fronte di un esito differente da quello auspicato, non posso sottrarmi al compito – anche scomodo – di guardare in faccia la realtà e cercare di capire cosa sia accaduto oggi all’interno delle urne del Coni. È proprio nei momenti in cui si perde un’opportunità che si ha la responsabilità di interrogarsi più a fondo. La domanda, a questo punto, è inevitabile: la condizione di disabilità di Luca Pancalli ha inciso nella decisione finale? È una domanda scomoda, forse anche ingenerosa. Ma è una domanda che va posta. Pancalli ha dimostrato nei fatti, negli anni e nei ruoli che ha ricoperto, di essere molto più che “una persona con disabilità”. È stato atleta olimpico, paralimpico, ed è stato presidente del Comitato Italiano Paralimpico, è stato assessore, dirigente, presidente della Federcalcio, interlocutore credibile delle istituzioni nazionali e internazionali. Ha incarnato l’idea di uno sport capace di essere inclusivo non solo nei regolamenti, ma nelle sue visioni e strategie. Sarebbe stato perfettamente in grado di rappresentare l’intero sistema sportivo nazionale in tutte le sue articolazioni, non solo il mondo paralimpico. Per questo in molti si sono chiesti se, con lui alla guida del Coni, lo sport italiano avrebbe potuto compiere un vero passo in avanti verso l’inclusione piena, non più solo nei proclami ma nei fatti. Tuttavia, qualcosa si è inceppato. Gli 81 grandi elettori chiamati a scegliere il nuovo presidente hanno seguito altre logiche, forse più tradizionali, forse più rassicuranti. Logiche che non sempre coincidono con il coraggio dell’innovazione o con la volontà di rappresentare la pluralità del mondo sportivo. Perché è di questo che stiamo parlando: della capacità di un’istituzione come il Coni di rispecchiare l’intera galassia dello sport, non solo quella olimpica o professionistica, ma anche quella sociale, inclusiva, accessibile. Le logiche che guidano queste elezioni sono complesse: ci sono equilibri, alleanze, visioni diverse. Ma è difficile non notare come, ancora una volta, il coraggio di aprire una strada nuova si sia scontrato con la forza dell’establishment. L’elezione di Pancalli avrebbe rappresentato non una rottura, ma una maturazione: il segno che lo sport italiano è pronto a riconoscere, senza riserve, che la leadership può e deve appartenere anche a chi, come lui, ha saputo trasformare una condizione personale in una visione collettiva. Naturalmente, questa riflessione non vuole minimamente mettere in discussione la legittimità del risultato o fornire alibi a chi ha espresso, con pieno diritto, il proprio voto in favore di Luciano Bonfiglio. A lui vanno, anzi, le più sincere congratulazioni per la vittoria ottenuta e per il percorso che lo attende alla guida di un’istituzione tanto complessa quanto centrale nello sport italiano. Tuttavia, ciò che lascia perplessi è il modo in cui questa elezione è stata raccontata, quasi ridotta a uno schema binario e semplificato: Bonfiglio come “l’uomo di Malagò” che batte Pancalli. Che ci sia stato un confronto elettorale è ovvio, che vi fossero delle alleanze è fisiologico, ma leggere nei lanci di agenzia titoli che enfatizzano questa contrapposizione come se fosse una partita a scacchi giocata da altri, è paradossale. Le parole, soprattutto quando vengono usate nei titoli o nelle narrazioni ufficiali, hanno un peso e non possono essere scelte con leggerezza. Continuare a etichettare persone e ruoli in base a rapporti di potere anziché ai contenuti delle visioni che rappresentano rischia di impoverire il dibattito e di allontanare il mondo dello sport da quella maturità politica e culturale di cui ha oggi profondamente bisogno. La vera questione, allora, non è se una persona con disabilità possa guidare lo sport italiano. La vera domanda è: perché non dovrebbe poterlo fare? È forse il pregiudizio, ancora presente, seppur in forme sottili e quasi invisibili, a suggerire che “certi ruoli” debbano essere occupati solo da chi risponde a determinati standard? Pancalli, con il suo percorso umano e professionale, ha già dimostrato di essere molto più di un simbolo. Ma a pensar male, direbbe qualcuno, si fa peccato… eppure, spesso, ci si azzecca. È lecito chiedersi se, sotto traccia, resista ancora un pregiudizio non esplicito, ma strisciante: quello che relega certe figure, pur autorevolissime, a ruoli “di nicchia”, confinati in ambiti tematici, mai davvero chiamati a rappresentare l’universale dello sport italiano. In una fase storica in cui il movimento sportivo si interroga su come essere più giusto, più rappresentativo, più aperto, l’esclusione di una figura come Pancalli non può essere derubricata a semplice risultato elettorale. È forse un’occasione persa, ma potrebbe diventare il punto di partenza per un cambiamento più profondo. Dipenderà da quanto siamo davvero pronti, come sistema, a riconoscere che la diversità – quando è sostenuta da qualità – non

Amministratore di Sostegno e Terzo Settore: Un’Alleanza per l’Autodeterminazione

Il prossimo 25 giugno 2025, presso il CNEL, (Aula Marco Biagi), si terrà un evento di straordinaria rilevanza sociale e giuridica dal titolo “Amministrazione di sostegno e terzo settore: scenari e prospettive“, organizzato dall’Osservatorio Inclusione e Accessibilità in collaborazione con la Fondazione Terzius. L’iniziativa rappresenta un’occasione unica per riflettere su uno degli istituti più innovativi e al tempo stesso controversi del nostro ordinamento: l’amministratore di sostegno (AdS). All’evento, che vedrà la partecipazione di alcune delle più autorevoli voci istituzionali del Paese – tra cui il Presidente del CNEL Renato Brunetta, il Ministro per le Disabilità Alessandra Locatelli e il Vice Ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali Maria Teresa Bellucci – e sarà presentato il Report di ricerca “Terzo settore e Amministrazione di sostegno: questioni scenari e prospettive”, un lavoro rigoroso e atteso, che offre una riflessione approfondita su uno strumento giuridico di grande valore sociale ma ancora poco sfruttato nel suo pieno potenziale.  Il report è stato prodotto dalla Fondazione Terzjus su incarico della Fondazione Ravasi Garzanti ed è stato curato dal Prof. Antonio Fici, noto giurista esperto in diritto del Terzo Settore e tematiche sociali, e dal Dr. Mario Renna, studioso con una consolidata esperienza nel campo delle politiche di welfare e inclusione. La loro collaborazione ha garantito un approccio multidisciplinare allo studio, coniugando rigore giuridico e sensibilità sociale. Grazie alla competenza accademica del Prof. Fici e all’esperienza operativa del Prof. Renna, il documento non si limita a una mera analisi normativa, ma offre spunti concreti per migliorare l’applicazione dell’amministrazione di sostegno, con particolare attenzione al ruolo degli enti non profit. La loro firma rappresenta una garanzia di qualità e profondità, assicurando che il Report sia uno strumento utile non solo per gli addetti ai lavori, ma per tutti coloro che credono in un diritto più vicino alle persone. Lo studio analizza con equilibrio criticità e opportunità, proponendosi come punto di riferimento per istituzioni, operatori del diritto e attori sociali. Attraverso dati, casi concreti e prospettive di riforma, il Report accende i riflettori su un tema delicato, dove la tutela delle persone vulnerabili si intreccia con le sfide applicative e culturali.  Più che un semplice documento, è un invito al dialogo: un’occasione per ripensare l’amministrazione di sostegno non come mero adempimento, ma come leva per l’inclusione e l’autonomia della persona, grazie a una sinergia più stretta tra mondo giuridico e Terzo Settore. La presentazione segnerà il primo passo di un confronto necessario – perché proteggere i fragili significa, prima di tutto, costruire risposte insieme.  Tra analisi e proposte, emerge una visione chiara: norme più accessibili, formazione diffusa e reti territoriali solide possono trasformare un istituto nobile in una vera opportunità di vita. Il Report: L’Amministratore di Sostegno: tra innovazione e vecchi paradigmi Introdotto nel 2004 con la Legge n. 6, l’amministratore di sostegno avrebbe dovuto segnare una svolta epocale nel modo di concepire la protezione giuridica delle persone con disabilità, abbandonando definitivamente il modello paternalistico dell’interdizione e dell’inabilitazione per abbracciare una logica di sostegno alla capacità decisionale. Eppure, a quasi vent’anni dalla sua introduzione, l’AdS rischia di essere snaturato dalla prassi applicativa. Troppo spesso, infatti, i tribunali – anziché privilegiare la volontà e l’autodeterminazione della persona – finiscono per concentrarsi quasi esclusivamente sulla tutela del patrimonio, trasformando quello che dovrebbe essere uno strumento di emancipazione in una sorta di “tutela mascherata”. La deriva patrimonialistica e il tradimento dello spirito originario Il Codice Civile (art. 408) è chiaro: l’amministratore di sostegno deve agire “nel rispetto della volontà della persona”, intervenendo solo laddove strettamente necessario e sempre in modo proporzionato. Nella realtà, però, accade frequentemente che i giudici – spesso per eccesso di cautela o per carenza di informazioni – attribuiscano all’AdS poteri troppo ampi, arrivando in alcuni casi a sostituirsi completamente alla persona nelle decisioni più importanti della sua vita. Nato per tutelare, in alcuni casi si è trasformato in uno strumento di controllo e coercizione, svuotando completamente la volontà della persona che dovrebbe invece proteggere. Emblematici sono i casi denunciati dal programma “Le Iene”, come quello di Carlo, un uomo con disabilità fisica ma perfettamente capace di intendere e di volere, a cui è stato imposto un AdS contro la sua volontà, privandolo della libertà di gestire i propri soldi e decidere della propria vita. O quello di Simona, una donna autosufficiente che, dopo una controversa nomina dell’amministratore, si è vista negare persino la possibilità di scegliere dove vivere e con chi relazionarsi. Questi casi non sono isolati: sempre più spesso, l’AdS viene utilizzato come uno strumento di interdizione mascherata, dove la persona viene sottoposta a un regime di limitazioni sproporzionate, senza che vi sia una reale necessità. Spesso, dietro queste situazioni, si nascondono conflitti familiari, interessi economici o semplicemente un’applicazione superficiale della legge da parte dei tribunali, che nominano amministratori senza valutare adeguatamente le reali capacità residue della persona. Una deriva che contraddice platealmente i principi sanciti dalla Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità (ratificata dall’Italia con la Legge 18/2009), la quale all’art. 12 stabilisce che gli Stati devono riconoscere “la piena capacità giuridica delle persone con disabilità su base di uguaglianza con gli altri”……, garantendo che i sistemi di sostegno rispettino “la volontà, le preferenze e i diritti” dell’individuo.  Eppure, la Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità imporrebbe invece di ascoltare la volontà dell’individuo prima di qualsiasi intervento, ma la realtà è che, in troppi casi, l’AdS viene deciso sulla persona, senza la persona. Questi abusi tradiscono lo spirito originario dell’istituto e rendono urgente una riforma che ponga fine a queste distorsioni, restituendo voce e autonomia a chi rischia di perderle proprio in nome di una protezione che troppo spesso si trasforma in oppressione. Il contrasto tra le nobili finalità dell’amministrazione di sostegno e la sua concreta applicazione emerge con drammatica evidenza dall’esame della giurisprudenza e dei dati recenti. Quello che doveva essere uno strumento di emancipazione rischia spesso di trasformarsi in un meccanismo di controllo, svuotando di significato il principio cardine dell’autodeterminazione. Il caso deciso dal Tribunale di Roma nel

Riforma della disabilitò, decreto 62: la Persona è assoluta protagonista

Il Decreto Legislativa 62/2024, attraverso le sue disposizioni innovative, segna una tappa fondamentale nella riforma del sistema di valutazione della disabilità e nell’elaborazione del progetto di vita individuale. La norma in esame rappresenta un passo significativo verso una maggiore inclusione sociale delle persone con disabilità, rafforzando l’approccio personalizzato e multidimensionale che deve guidare la progettazione degli interventi a loro favore. Siamo di fronte ad un cambiamento profondo nella concezione della disabilità stessa, considerandola non più solo come una condizione patologica, ma come un fenomeno complesso che si intreccia con il contesto sociale, psicologico e ambientale del soggetto. Una delle principali innovazioni introdotte dal D.Lgs. 62/2024 è la definizionedella “valutazione di base”, che costituisce il punto di partenza obbligatorio per ogni inter-vento. Questo processo consente di definire con maggiore precisione la condizione di disa-bilità, misurandone l’intensità e identificando i supporti necessari per l’inclusione sociale e il miglioramento della qualità della vita. La valutazione si basa su un approccio multidimensionale che integra i modelli ICF e ICD, facendo emergere la complessità della condizione di disabilità e la necessità di un trattamento che vada oltre la semplice diagnosi medica. Il fatto poi che la valutazione avvenga attraverso una visita collegiale è una garanzia di un approccio completo e approfondito, capace di considerare la persona nella sua totalità. Un altro aspetto fondamentale del decreto è il “progetto di vita individuale”, che si configura come uno strumento chiave per garantire la piena partecipazione della persona con disabilità nella vita sociale. Questo progetto non solo viene personalizzato in base alle esigenze specifiche della persona, ma garantisce anche una totale libertà di residenza, consentendo alla persona di trasferirsi senza perdere i diritti e i supporti previsti dal piano. Un aspetto così innovativo, che rafforza il diritto all’au-todeterminazione, costituisce un importante passo verso una società più inclusiva e rispettosa delle libertà individuali. Il cuore della riforma risiede nel coinvolgimento attivo della persona con disabilità, che diventa protagonista in tutte le fasi del processo di valutazione e progettazione. La partecipazione attiva della persona non solo nel definire gli obiettivi, ma anche nel monitorare l’attuazione del piano, rende la riforma un vero strumento di em-powerment, che consente alla persona con disabilità di essere al centro delle scelte che riguardano la propria vita. Inoltre, l’unità di valutazione multidimensionale (UVM), composta da un’équipe di professionisti che include me-dici, psicologi, assistenti sociali ed educatori, offre una visione olistica e integrata delle necessità del soggetto, favorendo l’elaborazione di interventi mirati che rispondano in modo concreto alle difficoltà quotidiane. In un’ottica di miglioramento continuo, il decreto prevede una fase di sperimentazione che consentirà di perfezionare le modalità operative, raccogliendo feedback utili per ottimizzare l’applicazione della legge a livello nazionale. Questo approccio graduale garantisce che la riforma possa essere adattata alle reali esigenze delle persone con disabilità e delle strutture coinvolte, favorendo una sua implementazione efficace. In sintesi, il D.Lgs. 62/2024 segna una svolta fondamentale nel nostro siste-ma. La valutazione di base e il progetto di vita individuale sono strumenti che non solo mirano a migliorare la qualità della vita delle persone con disabilità, ma promuovono anche un’idea di disabilità che non è più vista come un ostacolo, ma come un aspetto della persona che può essere affrontato con interventi mirati e personalizzati. Se correttamente imple-mentato, il decreto avrà un impatto positivo duraturo, favorendo una maggiore inclusione sociale e un’autodeterminazione più completa delle persone con disabilità, consolidando così il diritto di ciascuno a partecipare attivamente alla vita della comunità.

La ricerca sulle lesioni midollari tra speranze concrete e comunicazione responsabile

La speranza delle persone con lesione midollare e in generale con disabilità non può stare nell’annuncio “miracoloso” di turno, da parte degli organi d’informazione, ma nella capacità di costruire un percorso condiviso in cui la comunità scientifica, i media, le istituzioni e le associazioni lavorino insieme con obiettivi chiari: avanzare nella ricerca, comunicare con responsabilità, migliorare concretamente la vita delle persone: solo così, infatti, potranno diventare realtà accessibili a tutti quelle che oggi sono ancora speranze L’ennesima notizia di un possibile avanzamento nella cura delle lesioni midollari ha fortemente riacceso in questi giorni i riflettori mediatici su una delle sfide più complesse della medicina contemporanea. Mentre i titoli dei giornali annunciano con enfasi “svolte epocali” e “miracoli scientifici”, chi vive quotidianamente con una paralisi spinale si trova ancora una volta a fare i conti con il divario tra l’entusiasmo mediatico e la realtà della ricerca scientifica. La tecnica al centro del recente dibattito – una combinazione di stimolazione elettrica e riabilitazione intensiva – rappresenta senza dubbio un passo avanti nella comprensione dei meccanismi di recupero neurologico e i risultati pubblicati, frutto del lavoro di team di ricerca seri e competenti [se ne legga in calce, N.d.R.], meritano attenzione e approfondimento. Eppure, la distanza tra un protocollo sperimentale e una terapia accessibile a tutti rimane enorme, un dettaglio troppo spesso sacrificato sull’altare della notizia sensazionale. Se da una parte, quindi, guardiamo ovviamente con grande interesse a ogni progresso scientifico, dall’altra, però, chiediamo che se ne parli con il necessario rigore. Quando infatti trasformiamo ipotesi di ricerca in certezze mediatiche, facciamo un torto sia alla scienza che alle persone che attendono risposte concrete. E la storia recente, purtroppo, offre numerosi esempi di questo fenomeno: dagli esoscheletri, presentati anni fa come soluzione imminente, e oggi ancora confinati in centri specializzati, alle terapie cellulari, che hanno suscitato speranze poi ridimensionate dalla complessità della ricerca clinica. Il problema, dunque, non è nell’importanza delle scoperte scientifiche, ma nel modo in cui vengono comunicate. Titoli trionfalistici come Addio alla sedia a rotelle o La paralisi è sconfitta rischiano di creare aspettative irrealistiche in chi convive con una lesione midollare, per poi lasciare spazio a comprensibili delusioni, quando si scopre che i tempi della medicina sono ben diversi da quelli della cronaca. Ogni annuncio prematuro finisce per alimentare la cosiddetta “sindrome della speranza tradita” che tante persone con disabilità hanno già sperimentato sulla propria pelle. Ma c’è poi un aspetto ancora più profondo che merita certamente attenzione ed è che la qualità della vita delle persone con lesioni midollari non dipende esclusivamente dai progressi della ricerca biomedica: accessibilità, inclusione lavorativa, assistenza adeguata, sostegno psicologico sono tutti elementi altrettanto cruciali che rischiano di passare in secondo piano, quando il dibattito si concentra esclusivamente sulla “cura miracolosa”. In altre parole, non accettiamo che si parli delle persone con disabilità solo in termini di attesa di una soluzione medica: la nostra battaglia, infatti, è per una società che sappia includere tutti e tutte, qui e ora, indipendentemente dai progressi della ricerca. La strada maestra, allora, sembra essere quella di un approccio equilibrato che sappia coniugare diversi elementi: l’entusiasmo per i progressi scientifici, che devono essere sostenuti e incoraggiati; la responsabilità nella comunicazione, che deve evitare facili trionfalismi; l’attenzione alle esigenze concrete delle persone con disabilità, che vanno ben oltre la sola dimensione medica. Perché se è vero che la scienza procede per piccoli passi, è altrettanto vero che ogni passo – purché comunicato con onestà e rigore – rappresenta un tassello importante nel lungo cammino verso soluzioni sempre più efficaci. In questo senso, il ruolo dei media è cruciale: serve cioè un giornalismo scientifico capace di spiegare la complessità senza banalizzarla, di raccontare le speranze senza trasformarle in illusioni, di mantenere viva l’attenzione su una tematica che merita un dibattito serio e continuativo, non solo qualche titolo a caratteri cubitali in occasione dell’ultima pubblicazione. Allo stesso tempo, le Istituzioni hanno il dovere di garantire risorse costanti alla ricerca e di lavorare parallelamente all’abbattimento di tutte quelle barriere fisiche, culturali e sociali che ancora limitano la piena partecipazione delle persone con disabilità. La speranza, in fondo, non sta nell’annuncio “miracoloso” di turno, ma nella capacità di costruire un percorso condiviso in cui la comunità scientifica, i media, le istituzioni e le associazioni lavorino insieme con obiettivi chiari: avanzare nella ricerca, comunicare con responsabilità, migliorare concretamente la vita delle persone. Solo così potremo rendere realtà accessibili a tutti quelle che oggi sono ancora speranze. Il caso clinico cui si fa riferimentro nel presente contributo è stato pubblicato dalla rivista scientifica «Med – Cell Press», frutto di un lavoro condotto dal team multidisciplinare di MINELab, che vede coinvolti i medici, fisioterapisti e ricercatori dell’IRCCS Ospedale San Raffaele di Milano e dell’Università Vita-Salute San Raffaele, insieme ai bioingegneri della Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa.

Continuità degli insegnanti di sostegno, il decreto resta.

Il Tar del Lazio ha respinto la richiesta di sospensione del decreto ministeriale 32/2025, che per la prima volta permetteva alle famiglie di chiedere conferma del docente di sostegno precario. I giudici dovranno comunque esprimersi sulla norma nel merito, ma per quest’anno si procede. Come più volte ribadito, la continuità non è un’opzione organizzativa, ma condizione indispensabile per percorsi di apprendimento coerenti e relazioni educative significative. Le famiglie degli alunni con disabilità potranno chiedere la riconferma per il prossimo anno del docente di sostegno già in servizio nell’anno scolastico 2024/2025. Per ora, almeno. Il Tribunale amministrativo regionale – Tar del Lazio (le cui decisioni, va sottolineato, fanno giurisprudenza, con un impatto rilevante sulle decisioni degli altri Tar regionali) non ha ritenuto sussistenti i presupposti per concedere una misura cautelare per sospendere l’efficacia (in attesa di un giudizio nel merito) del decreto ministeriale 32/2025, “Misure finalizzate a garantire la continuità dei docenti a tempo determinato su posto di sostegno per l’anno scolastico 2025/2026”. Nelle scorse settimane Flc Cgil e Gilda Unams, tra gli altri, avevano impugnato il decreto ministeriale 32/2005 perché, come si legge nel testo che respinge la richiesta di istanza cautelare, «violerebbe il principio del merito posto a fondamento della procedura di reclutamento dei docenti, impedendo a docenti collocati in posizione utile in graduatoria di essere destinatari di un contratto a tempo determinato nei posti di sostegno confermati». Costituitasi in giudizio a fianco del ministero dell’Istruzione e del Merito e dell’Autorità garante per i diritti delle persone con disabilità, la Federazione italiana per i diritti delle persone con disabilità e famiglie-Fish_Ets ha invece sostenuto con fermezza la legittimità e l’urgenza delle misure previste dal decreto. Con questa decisione, il Tar riconosce non solo la fondatezza giuridica della norma, ma soprattutto l’importanza cruciale della continuità educativa per garantire il diritto all’istruzione degli studenti con disabilità. Oggi, possiamo affermare con orgoglio che questa vittoria appartiene a tutti coloro che credono in una scuola capace di valorizzare le differenze e garantire a ciascuno il diritto di costruire il proprio progetto di vita. Una vittoria che dedichiamo agli studenti con disabilità, alle loro famiglie e agli insegnanti che, nonostante mille difficoltà, continuano ogni giorno a costruire ponti verso una società più giusta e inclusiva. La decisione del Tar, secondo l’associazione, segna un passaggio decisivo nel cammino verso una scuola realmente inclusiva. Sancisce infatti che la continuità «non è un’opzione organizzativa, ma una condizione indispensabile per percorsi di apprendimento coerenti e relazioni educative significative». È il superamento di una visione frammentaria dell’inclusione, in favore di un  approccio fondato sulla progettualità, sulla competenza e sulla stabilità. Non si tratta di creare corsie preferenziali per alcune categorie di docenti, si precisa, ma di «garantire il pieno esercizio di un diritto per migliaia di studenti con disabilità. Una scuola che cambia continuamente figure di riferimento indebolisce il percorso educativo, disperde competenze e relazioni, mina l’efficacia dell’inclusione. Questa vittoria giuridica rappresenta un passo avanti concreto. Ma molto resta da fare. Ora è necessario vigilare sull’applicazione omogenea della norma, rafforzare la formazione dei docenti, investire risorse adeguate affinché l’inclusione scolastica non resti un principio astratto ma si traduca in prassi quotidiane». Questa sentenza, afferma con chiarezza che la continuità educativa non è un optional o una semplice comodità organizzativa, bensì una condizione essenziale per garantire il diritto all’istruzione. Troppo spesso abbiamo assistito allo svilimento di percorsi educativi faticosamente costruiti, vanificati dal continuo avvicendarsi di figure di riferimento. Ora viene sancito un principio inequivocabile: la stabilità della relazione educativa costituisce parte integrante e imprescindibile del processo di apprendimento per gli studenti con disabilità.

I referendum sul lavoro e le persone con disabilità: un approfondimento

Davanti ai prossimi referendum di giugno crediamo sia necessario sottrarsi alla semplificazione dello scontro ideologico e conoscere bene cosa siamo chiamati davvero a decidere. Il nostro voto, infatti, avrà effetti concreti sulla vita di chi lavora in condizioni di maggiore fragilità. E la complessità, stavolta, non è un alibi: è responsabilità. Innanzitutto va ricordato dunque che l’8 e il 9 giugno i cittadini e le cittadine saranno chiamati a esprimersi su cinque quesiti referendari, quattro dei quali riguardanti il mondo del lavoro. Tra questi, assume particolare rilievo quello relativo all’abrogazione del Decreto Legislativo 23/15, noto come Jobs Act. In caso di vittoria del “Sì”, verrebbe cancellato il sistema delle tutele crescenti — applicato ai contratti di lavoro a tempo indeterminato stipulati a partire dal 7 marzo 2015 — e reintrodotto in modo generalizzato il vecchio articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori (Legge 300/70) come unico meccanismo di tutela contro i licenziamenti illegittimi. Anche ammettendo – ipotesi non da tutti condivisa – che l’abrogazione del Decreto 23/15 comporti effettivamente un ripristino generalizzato dell’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori, applicabile quindi anche alle assunzioni successive al 2015, è importante precisare che non si tornerebbe alla versione originaria del 1970, bensì a quella riformata dalla cosiddetta “Riforma Fornero” nel 2012 (Legge 92/12). Al di là dunque del dibattito “ideologico”, il ritorno all’articolo 18 potrebbe sembrare un rafforzamento delle garanzie per i lavoratori. E tuttavia, per alcune categorie particolarmente vulnerabili, come le persone con disabilità, la reintroduzione del vecchio sistema potrebbe determinare, anziché un ampliamento, una riduzione delle tutele. Il testo dell’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori, infatti, nella sua formulazione attuale non garantisce una tutela ripristinatoria piena ai lavoratori con disabilità, salvo che il licenziamento non venga espressamente qualificato come discriminatorio. A meno che non si affronti esplicitamente questo nodo, dunque, il referendum potrebbe portare a reintrodurre un sistema non pienamente coerente con i princìpi del diritto antidiscriminatorio nazionale ed europeo. L’analisi Prima di affrontare il cuore del tema, pare necessario inquadrare il problema centrale posto dal testo del citato articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori, così come novellato dalla cosiddetta “Riforma Fornero”, partendo da un presupposto teorico. Il licenziamento per sopravvenuta inidoneità psicofisica alla mansione è stato ed è tradizionalmente inquadrato nell’àmbito del giustificato motivo oggettivo, in quanto riconducibile ad una causa legittima di recesso non imputabile al comportamento del lavoratore, ma piuttosto ad una sopravvenienza oggettiva che incide sulla possibilità di utilizzare il lavoratore “proficuamente” nell’organizzazione aziendale. Tale sistemazione teorica è consolidata nella dottrina prevalente secondo la quale l’inidoneità – in particolare quando non temporanea o non superabile con adeguamenti ragionevoli – può determinare un’interruzione del sinallagma contrattuale [nesso di reciprocità, N.d.R.] tale da legittimare la cessazione del rapporto. Sulla scia di questi approfondimenti teorici, la giurisprudenza ha chiarito più volte come l’inidoneità, se accertata e persistente, integri una situazione obiettiva di impossibilità della prestazione lavorativa, idonea a giustificare il licenziamento ai sensi dell’articolo 3 della Legge 604/66, purché il datore di lavoro abbia previamente valutato – e dimostrato – l’impossibilità di adibire il lavoratore ad altre mansioni compatibili con il suo stato psicofisico. La legittimità del licenziamento, quindi, viene tradizionalmente subordinata alla verifica dell’impossibilità di adibire il lavoratore ad altre mansioni compatibili, secondo la regola giurisprudenziale del cosiddetto repêchage [ripescaggio]. Tuttavia, nelle fattispecie in cui la sopravvenuta inidoneità derivi da una condizione di disabilità — secondo la definizione data dalla Direttiva 2000/78/CE, dal Decreto Legislativo 216/03 e dalla Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità— l’ordinamento impone obblighi ulteriori e più stringenti in capo al datore di lavoro. In base infatti all’articolo 5 della citata Direttiva 2000/78/CE e all’articolo 3, comma 3-bis del Decreto Legislativo 216/03, come pure all’articolo 2 della Legge 67/06 sulle discriminazioni, il datore di lavoro è tenuto a valutare e ad adottare accomodamenti ragionevoli, ovvero misure organizzative, tecniche o ambientali idonee a consentire al lavoratore di continuare a svolgere la propria attività, pur in presenza di limitazioni funzionali. In particolare, l’articolo 3, comma 3-bis del Decreto 216/03 impone l’adozione degli accomodamenti ragionevoli, intesi come «misure appropriate e necessarie, che non comportino un onere sproporzionato, per consentire alla persona disabile di conservare il posto di lavoro». Proprio il rispetto di questo disposto normativo si concretizzerebbe dunque in un obbligo che condiziona “a monte” l’esercizio del potere di recesso, atteggiandosi in modo del tutto peculiare. In tali casi, infatti, non si tratterebbe solo di “cercare” mansioni alternative – il cosiddetto repêchage – ma di modificare l’organizzazione aziendale, anche in senso adattivo, al fine di mantenere il rapporto (si confronti in M. Aimo, Licenziamento disciplinare per indebita fruizione dei permessi per l’assistenza a familiare disabile, nota a Cassazione 25 marzo 2019, n. 8310, GI, 2019, 1872). Il principio di intangibilità dell’assetto organizzativo, pertanto, che è tradizionalmente garantito, viene qui ridimensionato alla luce della logica solidaristica e inclusiva propria del diritto antidiscriminatorio. Un’impostazione che, se portata alle sue estreme conseguenze, implica che l’omessa adozione di accomodamenti ragionevoli configuri, secondo la citata Direttiva Comunitaria e la Convenzione ONU, una discriminazione indiretta, con conseguente nullità del licenziamento. In questo caso, quindi, il licenziamento non sarebbe soltanto e semplicemente ingiustificato, ma più propriamente illegittimo, in quanto fondato su una violazione di norme imperative a tutela delle persone con disabilità (si confronti qui A. Donini, L’applicazione indistinta del comporto è discriminatoria se la malattia è riconducibile a disabilità, nota a Cass. 31 marzo 2023, n. 9095 e App. Napoli 17 gennaio 2023, n. 168, RIDL, 2023, II, 254, relativamente ad una fattispecie che ruotava intorno al superamento del periodo di comporto). Accogliere questa prospettiva significa quindi ammettere che la disabilità “riduca” il perimetro del potere datoriale di licenziamento: non è sufficiente dimostrare che non esistono mansioni compatibili, ma occorre che il datore di lavoro provi altresì che le misure di adattamento organizzativo sono effettivamente irragionevoli o sproporzionate. Alla luce di quanto detto, si è ormai consolidato l’orientamento giurisprudenziale secondo cui il licenziamento di un lavoratore con disabilità divenuto inidoneo allo svolgimento delle proprie mansioni per ragioni psicofisiche non può essere qualificato come recesso legittimo, se prima non sia stata verificata – in modo serio, concreto e documentabile – la possibilità di adottare accomodamenti ragionevoli idonei a conservare il rapporto di lavoro. Secondo la Corte di Cassazione, infatti, il datore di lavoro ha l’onere di attivarsi per individuare soluzioni

Che sia un pontificato di pace, dialogo e diritti umani

Con l’elezione di Leone XIV, la Chiesa Cattolica si apre a una nuova fase del proprio cammino, orientata verso una visione profetica e inclusiva del mondo contemporaneo. In un tempo attraversato da guerre, ingiustizie sociali e profonde fratture culturali, il nuovo pontificato si presenta come un invito concreto alla riconciliazione, alla costruzione di legami di fraternità e all’impegno condiviso per la dignità di ogni persona. Il richiamo, inoltre, al papato di Leone XIII, figura emblematica per il proprio impegno a favore della giustizia sociale, suggerisce chiaramente che questo pontificato sarà segnato da una rinnovata attenzione per la dottrina sociale della Chiesa. Leone XIII, infatti, con la sua enciclica Rerum Novarum (“Delle cose nuove”) del 1891, aveva posto le basi per un intervento della Chiesa nelle questioni sociali, evidenziando la necessità di difendere i diritti dei lavoratori e di promuovere la giustizia nelle relazioni economiche e sociali. Il nome scelto, quindi – Leone XIV appunto – non solo richiama la figura di Leone XIII e la sua visione sociale, ma intende esprimere anche un impegno diretto e deciso nel fronteggiare le problematiche globali, come la povertà, le disuguaglianze e la tutela dei diritti umani. Un atto, questo, che indica la determinazione del nuovo Papa a promuovere una visione che non sarà solo teologica, ma anche profondamente concreta, mirata a proteggere la dignità umana e a garantire il bene comune per ogni individuo. Al centro dunque di questa visione si colloca la promozione della pace e del dialogo tra popoli, fedi e comunità, nella convinzione che solo attraverso l’ascolto reciproco e la collaborazione si possano costruire società giuste e solidali. Accanto a questi grandi temi globali, deve però anche emergere con forza anche l’attenzione per le persone con disabilità, spesso dimenticate nei processi decisionali, emarginate nei contesti civili e religiosi, e ostacolate nell’esercizio pieno dei loro diritti. Proprio in questo àmbito, il pontificato di Leone XIV potrebbe segnare un momento di svolta: si auspica infatti che il Vaticano possa finalmente avviare un processo formale di recepimento della Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità. Si tratterebbe di un gesto di grande valore, non solo simbolico ma operativo, capace di orientare l’intera comunità ecclesiale verso una maggiore attenzione ai temi dell’inclusione, della partecipazione e dell’equità. Il recepimento della Convenzione ONU rappresenterebbe infatti per la Santa Sede l’opportunità di confermare il proprio impegno sui diritti umani, riconoscendo la piena cittadinanza delle persone con disabilità all’interno della Chiesa e della società. Significherebbe abbracciare con coerenza i principi evangelici di giustizia, accoglienza e rispetto della dignità umana, rendendo testimonianza di una Chiesa davvero universale, capace di prendersi cura delle fragilità non come limiti, ma come luoghi teologici da cui ripartire. In questo processo, la partecipazione della società civile, e in particolare delle organizzazioni che da anni lavorano per l’affermazione dei diritti delle persone con disabilità, sarà cruciale. La FISH (già Federazione Italiana per il Superamento dell’Handicap, oggi Federazione Italiana per i Diritti delle Persone con Disabilità e Famiglie) esprime un forte auspicio affinché possa essere coinvolta attivamente in questo percorso, insieme alla propria rete associativa, tra cui il MAC (Movimento Apostolico Ciechi), che alla Federazione aderisce. L’esperienza maturata, il radicamento sui territori e la competenza nell’àmbito dei diritti umani rappresentano una risorsa imprescindibile per accompagnare un cambiamento autentico. Il nostro coinvolgimento non solo garantirebbe un approccio rispettoso delle esperienze vissute dalle persone con disabilità, ma offrirebbe anche un’occasione per costruire alleanze concrete tra il mondo ecclesiale e quello delle Associazioni. Un pontificato che mette al centro la pace, il dialogo e i diritti deve fondarsi sulla corresponsabilità. Ecco perché come FISH ribadiamo la nostra disponibilità a contribuire con spirito di servizio e collaborazione a questo nuovo cammino, perché nessuno venga lasciato indietro, e perché la voce delle persone con disabilità trovi ascolto e riconoscimento anche nel cuore della Chiesa.

Il ruolo del movimento associativo nell’era dei social

Come persona con disabilità e come leader di una delle più grandi organizzazioni italiane impegnate nella tutela dei diritti delle persone con disabilità, sento il dovere di intervenire su un tema che ci tocca da vicino, ogni giorno, con sempre maggiore intensità: l’uso dei social media per denunciare le difficoltà legate alla disabilità. Lo faccio con rispetto, consapevole del fatto che ogni post, ogni video, ogni sfogo digitale è spesso l’espressione sincera di una sofferenza reale, di una frustrazione maturata nell’incomprensione, nel disservizio, nell’assenza di risposte. Tuttavia, proprio perché quelle sofferenze meritano attenzione e rispetto, è necessario fare chiarezza. È necessario ricordare che l’efficacia delle denunce non dipende dalla loro visibilità, ma dalla loro capacità di generare un cambiamento reale. E per farlo serve un metodo. Serve una strategia. Serve un’alleanza tra chi vive le difficoltà e chi, da anni, le rappresenta a livello istituzionale. Viviamo in un’epoca in cui il digitale ha trasformato radicalmente il modo in cui comunichiamo, protestiamo, ci organizziamo. I social network hanno dato voce a chi prima non ne aveva, hanno rotto il silenzio su tante forme di discriminazione, hanno acceso riflettori su problemi che per decenni sono rimasti ai margini del dibattito pubblico. E tutto questo va riconosciuto. Ma oggi, alla luce di questa nuova realtà comunicativa, è indispensabile fare un passo in più. Dobbiamo chiederci: vogliamo limitarci a rendere visibili i problemi, o vogliamo davvero risolverli? Il movimento associativo delle persone con disabilità ha una storia lunga e consolidata. È fatto di decine di organizzazioni grandi e piccole, diffuse sul territorio, che ogni giorno offrono supporto, informazione, assistenza e rappresentanza. È un patrimonio di competenze, di esperienze, di relazioni istituzionali, costruito nel tempo grazie al lavoro paziente e continuo di migliaia di persone. Non è una struttura burocratica o autoreferenziale. È una rete viva, dinamica, profondamente radicata nei bisogni delle persone. E proprio perché conosce quei bisogni, sa anche come trasformarli in richieste legittime, in interlocuzioni politiche, in risposte concrete. Negli ultimi mesi, abbiamo assistito a un crescendo di denunce online – spesso legittime – riguardanti disservizi nella fornitura di ausili, protesi, presidi sanitari e materiali di consumo. Parliamo di strumenti essenziali per la sopravvivenza e la qualità della vita: dispositivi per la respirazione assistita, per la nutrizione enterale, per l’igiene personale. Quando questi strumenti mancano o arrivano in ritardo, le conseguenze sono gravissime, e la rabbia è comprensibile. Ma la domanda che dobbiamo porci è: come possiamo fare in modo che questa rabbia non si disperda? Come possiamo trasformarla in azione efficace? I social non sono strumenti di intervento. Sono potenti mezzi di sensibilizzazione, ma non sostituiscono i canali ufficiali attraverso cui si muove il cambiamento. Il movimento associativo, per sua natura e per mandato, opera attraverso modalità formali: raccoglie le segnalazioni tramite PEC, attraverso le sedi territoriali, mediante i moduli presenti sui siti istituzionali. Una volta ricevuta la segnalazione, verifica la fondatezza del caso, analizza la documentazione, avvia un confronto con gli enti preposti, formula proposte, sollecita risposte. È un lavoro che richiede tempo, rigore e collaborazione, ma è l’unico che può produrre risultati duraturi. Molte delle segnalazioni che esplodono online, invece, non arrivano mai a chi ha il potere o il dovere di intervenire. Manca la documentazione, mancano i riferimenti normativi, manca spesso anche il consenso al trattamento dei dati personali. Così, paradossalmente, le storie che ottengono centinaia di condivisioni rischiano di restare inascoltate. Non per cattiva volontà, ma perché prive degli elementi necessari per attivare un’azione concreta. Eppure, non c’è contrapposizione tra visibilità e azione, tra comunicazione e istituzione. Il punto è costruire un ponte tra questi due mondi. Un esempio virtuoso è quanto accaduto con la segnalazione dell’associazione Nessuno è Escluso, rilanciata anche da Marco Rasconi, presidente UILDM. In questo caso, la denuncia è stata presa in carico dal movimento associativo attraverso i canali formali: si è avviato un confronto istituzionale, si è prodotta una mobilitazione con obiettivi chiari. È questo il modello che dobbiamo promuovere. La vera sfida del nostro tempo è trasformare l’indignazione in proposta, la rabbia in progetto, il disagio in diritto. Per riuscirci, abbiamo bisogno di collaborazione e fiducia reciproca. Il movimento associativo non può sostituirsi ai cittadini, ma può accompagnarli, tutelarli, rappresentarli. E per farlo ha bisogno che le persone con disabilità, le loro famiglie, i caregiver, le realtà territoriali si affidino ai canali giusti, forniscano tutte le informazioni necessarie, contribuiscano a costruire un’azione condivisa. Viviamo in un Paese in cui le diseguaglianze sono ancora forti e strutturali. In cui la disabilità è troppo spesso vissuta come un ostacolo, e non come una dimensione della cittadinanza. Ma il movimento associativo è qui, ogni giorno, a chiedere che le cose cambino. Lo fa con pazienza, con rigore, con determinazione. E non chiede applausi: chiede alleanza. Chiede che la denuncia sia solo il primo passo, non l’ultimo. Per questo, oggi più che mai, invitiamo tutte e tutti – cittadini, cittadine, associazioni, operatori e istituzioni – a scegliere i canali ufficiali. A inviare segnalazioni documentate. A rivolgersi alle organizzazioni territoriali. Perché solo così possiamo costruire una risposta forte, coordinata, efficace. Perché solo così possiamo garantire che ogni voce sia ascoltata, ogni diritto difeso, ogni storia accolta. Le ingiustizie meritano attenzione. Ma soprattutto meritano risposte. E le risposte, per arrivare, hanno bisogno di passare dai giusti canali. Il movimento associativo è qui per questo: per trasformare la protesta in proposta, e la proposta in cambiamento.

Vita Indipendente: un diritto da rendere reale

Oggi, 5 maggio, si celebra in tutto il Vecchio Continente la Giornata Europea per la Vita Indipendente delle persone con disabilità (The European Independent Living Day), una ricorrenza che nasce dal movimento delle persone con disabilità stesse, a partire dagli Anni Settanta, come rivendicazione di un principio fondamentale: la possibilità di scegliere autonomamente come vivere la propria vita, al pari di ogni altro cittadino e cittadina. La Vita Indipendente non significa “fare tutto da soli”. Significa, invece, avere il controllo delle proprie scelte quotidiane: dove vivere, con chi convivere, che tipo di assistenza ricevere, quale percorso lavorativo o formativo intraprendere, come partecipare alla vita sociale e culturale della propria comunità. È la possibilità di vivere con dignità, autodeterminazione e libertà, indipendentemente dalla propria condizione di disabilità. La FISH (già Federazione Italiana per il Superamento dell’Handicap, oggi Federazione Italiana per i Diritti delle Persone con Disabilità e Famiglie), attraverso la propria rete di Associazioni, da anni pone al centro del dibattito pubblico questo principio come fondamento di ogni politica inclusiva. Vivere liberi e partecipi, senza essere costretti in istituzioni, in strutture segreganti o dipendenti da sistemi rigidi e impersonali, è ciò che definisce una società realmente civile. Un passo importante è stato compiuto con l’approvazione della Legge Delega in materia di disabilità (Legge 227/21) e con l’adozione del Decreto Legislativo 62/24, attuativo di essa, che introduce il Progetto di Vita come strumento centrale per costruire percorsi personalizzati e autodeterminati. Questi provvedimenti rappresentano una base normativa significativa verso l’attuazione concreta del principio di Vita Indipendente e tuttavia, occorre che su questi strumenti vi sia maggiore consapevolezza, non solo da parte della politica e delle amministrazioni pubbliche, ma anche da parte dei cittadini/cittadine con disabilità e delle loro famiglie. La piena attuazione dei diritti richiede infatti partecipazione, informazione, presa in carico personalizzata e un cambiamento culturale profondo che metta la persona al centro. E altresì, oggi, in Italia, la Vita Indipendente ancora troppo spesso non è un diritto garantito. La scarsità di risorse, l’assenza di una regìa nazionale, le disparità territoriali e la logica emergenziale con cui vengono affrontate le disabilità, impediscono a migliaia di persone di accedere a percorsi personalizzati di assistenza e supporto. Il rischio è quello di relegare le persone con disabilità ai margini della cittadinanza attiva, negando di fatto l’articolo 3 della nostra Costituzione, che impone alla Repubblica di rimuovere gli ostacoli che impediscono il pieno sviluppo della persona umana. La Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità, ratificata dall’Italia nel 2009 con la Legge 18/09, stabilisce chiaramente all’articolo 19 (Vita indipendente ed inclusione nella società) il diritto a vivere nella comunità, con la libertà di scegliere dove e con chi vivere, e con il sostegno necessario a garantire una vita autonoma. Questo diritto non è negoziabile, né subordinato a criteri di economicità: è un impegno internazionale e costituzionale. La FISH invita dunque oggi con forza la politica nazionale ad agire: è necessario un piano strutturato, con finanziamenti stabili e mirati, che renda la Vita Indipendente una possibilità reale in ogni territorio. Serve riconoscere e finanziare l’assistenza personale autogestita, rafforzare i servizi di prossimità, costruire una cultura dell’inclusione che superi la logica assistenziale e promuova la piena partecipazione alla vita della comunità. Investire nella Vita Indipendente non è solo una questione di diritti, ma anche di sviluppo sociale: significa infatti costruire contesti più giusti, in cui ogni persona – con o senza disabilità – possa contribuire, scegliere, partecipare, amare, lavorare, sognare. Il 5 maggio non può essere solo una giornata di ricordo o celebrazione, ma un momento di responsabilità collettiva, perché la libertà di vivere secondo le proprie scelte è il cuore stesso della democrazia e la Vita Indipendente ne è una delle sue espressioni più alte.

A proposito del Decreto riguardante la specializzazione sul sostegno

Il recente Decreto Ministeriale recante Percorsi di specializzazione sul sostegno attivati ai sensi dell’articolo 6 del decreto-legge 31 maggio 2024, n. 71, convertito, con modificazioni, dalla legge 29 luglio 2024, n. 106 (disponibile a questo link), accompagnato dai relativi allegati tecnici, rappresenta una svolta significativa nel panorama della formazione degli insegnanti di sostegno. Con misure concrete e obiettivi chiari, il provvedimento punta a sanare una delle principali criticità del sistema scolastico italiano: la presenza di un elevato numero di docenti impegnati sul sostegno privi di adeguata specializzazione. Il Decreto, infatti, permette finalmente a molti dei circa 100.000 docenti attualmente in servizio sul sostegno senza titolo specifico di intraprendere un percorso formativo strutturato, ciò che rappresenta non solo una chance professionale per gli insegnanti coinvolti, ma soprattutto un primo passo concreto verso un sostegno didattico realmente qualificato per gli alunni e le alunne con disabilità, spesso penalizzati da un sistema che, pur prevedendo l’inclusione, non sempre è in grado di garantirla in modo efficace. Un’ulteriore novità rilevante è l’aumento del numero dei CFU richiesti (Crediti Formativi Universitari): da una proposta iniziale di 20 CFU, si è passati a 40, e in alcune casistiche fino a 48, scelta, questa, che rafforza la qualità della formazione, rispondendo alla complessità della figura del docente di sostegno, che richiede competenze pedagogiche, didattiche, relazionali e organizzative specifiche. Ogni CFU corrisponde a 25 ore complessive, distribuite tra lezioni teoriche, attività laboratoriali e studio individuale. Nonostante l’impegno richiesto, il costo dei corsi è stato calmierato: nessun percorso potrà superare i 1.500 euro, una misura volta a rendere più accessibile l’accesso alla specializzazione, evitando discriminazioni economiche. Tutte le attività, va detto, si svolgeranno online, ma in modalità sincrona, ossia in tempo reale. I partecipanti dovranno quindi essere presenti virtualmente alle lezioni, assicurando un’interazione attiva e un controllo effettivo della frequenza. Tuttavia, non è stata accolta la richiesta della nostra Federazione [FISH-Federazione Italiana per i Diritti delle Persone con Disabilità e Famiglie, N.d.R.] di svolgere in presenza almeno i laboratori, un aspetto che avrebbe potuto migliorare ulteriormente l’efficacia pratica del percorso. La direzione scientifica dei corsi sarà affidata a docenti universitari esperti del settore, anche per i percorsi coordinati dall’INDIRE (Istituto Nazionale Documentazione Innovazione Ricerca Educativa) e questo garantisce un alto livello di serietà accademica e una coerenza metodologica fondamentale per formare docenti realmente preparati ad affrontare le sfide dell’inclusione. Va ricordato ancora che mentre i corsi erogati dalle Università rilasciano un titolo di specializzazione valido non solo a livello nazionale, ma anche europeo, in conformità con il Sistema ECTS, diversamente, i titoli rilasciati dall’INDIRE avranno validità esclusivamente in Italia, un aspetto da tenere in considerazione per chi guarda anche a prospettive internazionali. A questo punto, la nostra Federazione, pur accogliendo con favore l’adozione di questo Decreto, invita le Istituzioni a compiere un passo ulteriore. La nostra stessa Federazione, infatti, chiede da tempo l’istituzione di una cattedra specifica per il sostegno, una misura strutturale che permetterebbe di superare la logica dell’emergenza, garantendo tre elementi fondamentali: una formazione iniziale solida, una formazione in servizio continua e mirata, e soprattutto la continuità didattica, che rappresenta un diritto essenziale per tutti gli alunni, ancor più per quelli con disabilità. La discontinuità del docente di sostegno, ancora oggi una delle principali fragilità del sistema, mina infatti l’efficacia dell’intervento educativo e compromette il percorso di crescita dell’alunno. Solo con un’assunzione di responsabilità piena, stabile e strutturale da parte dello Stato sarà possibile realizzare pienamente il principio di inclusione sancito dalla nostra Costituzione e dalle norme nazionali e internazionali sui diritti delle persone con disabilità.