Inclusione lavorativa, una sfida nazionale tra opportunità e diritti negati
L’accesso al mercato del lavoro per le persone con disabilità è una questione cruciale e complessa che merita un’attenzione approfondita, specialmente in vista della XII Relazione al Parlamento del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali (MLPS) sull’attuazione della legge 12 marzo 1999, n. 68. Gli attuali ed unici dati evidenziano un divario allarmante: solo il 18,3% delle persone con disabilità è occupato, rispetto al 63% di quelle senza condizione di disabilità nella fascia di età compresa tra i 15 e i 64 anni. Questa disparità non rappresenta solo numeri, ma storie di vita, aspirazioni e potenziali inespresso. La disoccupazione tra le persone con disabilità è del 3,8%, ma il dato più preoccupante è il tasso di inattività, che raggiunge un impressionante 77,9%. Queste statistiche non raccontano solo la mancanza di opportunità, ma anche le barriere culturali, sociali e strutturali che ostacolano una reale inclusione nel mondo del lavoro. È fondamentale riconoscere che le difficoltà di accesso al lavoro non sono uniformi; esistono differenze significative legate a genere ed età. Le donne con disabilità, ad esempio, presentano un tasso di occupazione inferiore (17,8%) rispetto ai loro omologhi maschili (18,7%), mentre tra le persone senza disabilità il divario di genere è ben più marcato. Ciò suggerisce che, oltre alle difficoltà legate alla disabilità, ci sono dinamiche di discriminazione di genere che aggravano ulteriormente la situazione. Un altro fattore critico è il divario territoriale. Nel nord Italia, il tasso di occupazione per le persone con disabilità è significativamente superiore rispetto al sud, evidenziando le disparità economiche e sociali che persistono nel nostro Paese. Sebbene il 70,2% delle persone con disabilità sia impiegato con contratti a tempo indeterminato, il contesto deve essere considerato: il 40,5% degli occupati con limitazioni si trova in lavori non qualificati, a fronte del 32,7% tra coloro privi di disabilità. Inoltre, la formazione gioca un ruolo fondamentale. La scarsa partecipazione ai percorsi formativi da parte dei giovani con disabilità crea un circolo vizioso: senza adeguata formazione, accedere a opportunità lavorative significative diventa difficile, contribuendo a un elevato tasso di Neet (non occupati e non in formazione) che raggiunge il 66,7% nella fascia di età 15-29 anni. Le politiche attive del lavoro, come quelle previste dall’articolo 14 del decreto legislativo n. 276/2003, cercano di affrontare tali problematiche, ma la loro efficacia è ancora in fase di valutazione. Per questo è fondamentale che il prossimo rapporto del MLPS non si limiti a presentare i dati, ma fornisca anche indicazioni concrete su come migliorare il collocamento mirato, garantendo che le persone con disabilità possano accedere a un mercato del lavoro inclusivo e sostenibile. Affrontare le sfide che le persone con disabilità incontrano nel mercato del lavoro richiede un impegno collettivo da parte di aziende, istituzioni e società civile. Le barriere fisiche e ambientali, la discriminazione, la mancanza di opportunità di formazione e l’inadeguata rappresentanza sono solo alcune delle difficoltà che necessitano di soluzioni concrete. È essenziale promuovere un ambiente di lavoro accessibile e inclusivo, che valorizzi la diversità garantendo pari opportunità è uguaglianza. Adottare un cambio di paradigma è cruciale: una forza lavoro diversificata non solo arricchisce l’ambiente di lavoro, ma porta con sé numerosi benefici. Essa stimola innovazione e creatività, migliora la produttività, offre una migliore comprensione del mercato e favorisce l’attrazione e la retention dei talenti. Le aziende che promuovono la diversità beneficiano di una cultura aziendale positiva, prendono decisioni più informate e migliorano la loro reputazione sul mercato. In conclusione, il percorso per garantire un accesso equo al lavoro per le persone con disabilità è irto di ostacoli, ma è fondamentale che la società nel suo complesso si impegni a superare queste barriere. Solo così ciascuno potrà contribuire appieno alle dinamiche economiche e sociali del Paese. La legge n. 68/1999 ha rappresentato un passo fondamentale verso l’inclusione delle persone con disabilità nelmercato del lavoro, stabilendo un quadro normativo volto a promuovere l’occupazione e a garantire pari opportunità. Nonostante i progressi significativi ottenuti nella promozione dell’inclusione delle persone con disabilità nel mondo del lavoro, il percorso verso una piena integrazione resta tutt’altro che lineare e privo di ostacoli. Oggi, più che mai, è fondamentale che le istituzioni, le imprese e la società civile uniscano le proprie forze in un’azione comune, mirata a superare le disuguaglianze esistenti e a riconoscere la diversità non come un limite, ma come una risorsa. Questo richiede un cambiamento culturale profondo, dove il valore dell’inclusione non sia solo un obiettivo etico, ma anche una leva per l’innovazione e la competitività del sistema economico. In questo scenario, appare quanto mai opportuna una riflessione su una riforma sostanziale della Legge 68/1999, per allinearla alle trasformazioni che hanno caratterizzato il mercato del lavoro degli ultimi decenni. Il panorama occupazionale attuale è radicalmente diverso da quello di quando la legge fu concepita: l’emergere di nuove forme di lavoro, la digitalizzazione e la globalizzazione dei mercati richiedono interventi normativi che rispondano alle sfide contemporanee. Un aggiornamento della Legge 68 potrebbe prevedere, ad esempio, misure più mirate per l’inserimento lavorativo delle persone con disabilità, ma anche un ampliamento delle opportunità di formazione e sviluppo professionale, in linea con le nuove competenze richieste dal mercato. Inoltre, sarebbe necessario potenziare le politiche attive del lavoro, affinché l’inclusione diventi un obiettivo concreto e misurabile a tutti i livelli. La promozione di un ambiente lavorativo inclusivo e diversificato non deve essere solo un fine sociale, ma deve trasformarsi in un motore di crescita e innovazione per il Paese. Solo con un approccio strategico e a lungo termine, che coinvolga tutti i soggetti interessati, sarà possibile realizzare una vera e propria integrazione delle persone con disabilità, facendo della diversità un elemento di forza e non di fragilità.
Un Giubileo carico di significato, ma con un’ombra evidente.
Lunedì si aprirà ufficialmente il Giubileo per le Disabilità, un evento che si preannuncia solenne e carico di significati simbolici. Il Giubileo del 2025 è stato indetto da Papa Francesco con la Bolla “Spes non confundit”. L’organizzazione del Giubileo è stata affidata al Pontificio Consiglio per la promozione della Nuova Evangelizzazione, è un momento di grazia per la Chiesa, con la possibilità di ottenere l’indulgenza plenaria e rappresenta un’occasione di riflessione e inclusione che travalica i confini religiosi, toccando la sfera civile e sociale. Un momento che avrebbe potuto – e dovuto – essere un punto di svolta nel modo in cui le persone con disabilità vengono coinvolte e ascoltate nei processi decisionali che le riguardano. Tuttavia, a poche ore dall’inizio delle celebrazioni, emerge una criticità profonda che sta suscitando delusione e perplessità: le due principali federazioni italiane che rappresentano le persone con disabilità, FISH (Federazione Italiana per i Diritti delle Persone con disabilità e famiglie, già Federazione Italiana per il Superamento dell’Handicap) e FAND (Federazione tra le Associazioni Nazionali delle Persone con Disabilità), sono state escluse dal convegno “Pellegrini di speranza”, evento centrale del Giubileo, organizzato dalla CEI e coordinato da suor Veronica Donatiello. Un’assenza che non può passare inosservata, e che solleva interrogativi importanti: come si può parlare di disabilità, di speranza, di futuro, senza coinvolgere direttamente chi quella realtà la vive quotidianamente? Com’è possibile che in un evento pensato per l’inclusione vengano escluse proprio le voci che rappresentano centinaia di migliaia di persone e famiglie in Italia? Il principio del “Nulla su di noi senza di noi” (Nothing about us without us), divenuto uno slogan internazionale delle persone con disabilità già dagli anni ‘90 e ispirato ai movimenti dei diritti civili, sembra essere stato dimenticato. La partecipazione attiva delle persone con disabilità alla definizione delle politiche che le riguardano non è un atto di gentilezza, ma un diritto. E questo diritto è riconosciuto anche nella Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità, che afferma chiaramente, all’articolo 4, che «nella formulazione e nell’attuazione della legislazione e delle politiche per attuare la presente Convenzione, gli Stati Parte devono consultare attivamente le persone con disabilità […] tramite le loro organizzazioni rappresentative». Fish e Fand non sono sigle astratte, ma realtà vive, articolate, radicate nei territori, che quotidianamente si confrontano con problemi reali: l’accessibilità, l’inclusione scolastica, il diritto al lavoro, il supporto alle famiglie, l’autonomia, la vita indipendente. Avrebbero potuto portare sul tavolo del convegno una prospettiva preziosa, concreta, fatta di esperienze dirette e di conoscenza profonda delle esigenze della comunità. L’evento “Pellegrini di speranza” si presenta dunque monco, privo di un elemento fondamentale: l’ascolto autentico. Non basta parlare di accoglienza e fraternità se poi, nei fatti, si escludono proprio i protagonisti di quel cambiamento che la Chiesa e la società intera dichiarano di voler sostenere. Papa Francesco, in diverse occasioni, ha ricordato che «nessuno dev’essere escluso dalla misericordia di Dio», e nel Messaggio per la Giornata Internazionale delle Persone con Disabilità del 2020 affermava: «La peggiore discriminazione di cui soffrono le persone con disabilità è la mancanza di attenzione spirituale, che a volte abbiamo nei loro confronti». Parole forti, che oggi risuonano come un monito non ascoltato. Anche Giovanni Paolo II, nel 1981, dichiarava: «Ogni uomo, anche il più debole e segnato da limitazioni fisiche o psichiche, è un valore in sé stesso, e va rispettato e amato». Eppure, non si può parlare di rispetto se si nega il confronto, se si ignora la rappresentanza collettiva di chi da decenni lavora per affermare questi stessi valori. In un momento storico in cui la disabilità è finalmente entrata nel dibattito pubblico, grazie anche alle battaglie di chi lotta da anni per i diritti e la dignità delle persone con disabilità e delle loro famiglie, ci si sarebbe aspettati un segnale diverso. Più forte, più inclusivo, più coraggioso. Un segnale che dicesse chiaramente: “vi vediamo, vi ascoltiamo, siete parte di noi”. E invece, ancora una volta, chi dovrebbe essere al centro è rimasto ai margini. Ma il tempo del silenzio è finito. Le persone con disabilità continueranno a farsi sentire, a rivendicare il loro spazio, a chiedere non solo parole, ma scelte concrete, responsabilità condivise, e soprattutto, rispetto. Il Giubileo per le Disabilità sarebbe potuto essere – e può ancora diventare – un segno profetico, un momento in cui la Chiesa dimostra concretamente che l’inclusione non è solo una parola, ma un gesto, una scelta, una strada da percorrere insieme. Includere significa riconoscere, non solo accogliere. Significa costruire spazi dove le persone con disabilità non siano ospiti, ma protagoniste. Dove le loro competenze, le loro storie, le loro fatiche e le loro speranze siano parte integrante del cammino collettivo. Finché questo non accade, ogni dichiarazione rischia di restare solo una bella intenzione. E la speranza, anziché germogliare, resta soffocata. Il tempo del Giubileo invita alla conversione: è il momento perfetto per correggere un passo falso, per riaprire il dialogo, per fare spazio a chi è stato lasciato fuori. Perché solo così il Giubileo parlerà davvero a tutti. Solo così sarà pienamente credibile. Solo così, sarà giusto. Un’ultima considerazione. Benché alcune realtà associative siano state effettivamente invitate e parteciperanno all’evento, la presenza delle nostre Federazioni FISH e FAND avrebbe garantito un contributo differente, trasversale, capace di abbracciare la complessità delle vite delle persone con disabilità in tutte le loro dimensioni. Le due Federazioni, infatti, non si limitano a rappresentare singole categorie o specifiche condizioni di disabilità, ma raccolgono e valorizzano voci eterogenee, esperienze molteplici, bisogni concreti che attraversano àmbiti fondamentali come l’accessibilità, l’istruzione, il lavoro, la vita indipendente, il sostegno alle famiglie. Una visione d’insieme che avrebbe potuto arricchire in modo significativo il confronto, offrendo quella profondità e quella prospettiva unitaria che oggi, purtroppo, mancano. La loro presenza, il patrimonio di conoscenze maturato in anni di impegno sul campo e la visione trasversale che sono in grado di offrire, avrebbero rappresentato un valore aggiunto decisivo, capace di elevare la qualità del confronto e di arricchirlo con prospettive concrete, inclusive e profondamente radicate nella
L’impegno per una libertà davvero inclusiva
Il 25 Aprile è una delle ricorrenze più significative del nostro Paese: la Festa della Liberazione dell’Italia dal nazifascismo. Non è soltanto una celebrazione del passato, ma un momento per interrogarsi sul presente e per rilanciare un’idea di libertà che sia davvero piena, concreta e condivisa. Come ricordava il padre costituente Piero Calamandrei, «la libertà è come l’aria: ci si accorge di quanto vale quando comincia a mancare». Questa frase, semplice e potente, ci invita a riflettere sul fatto che la libertà non è mai scontata, e che non può dirsi compiuta finché resta esclusa una parte della società. Nel nostro Paese, infatti, sono ancora numerose le persone che ogni giorno si scontrano con barriere che limitano l’accesso ai diritti fondamentali. Le persone con disabilità, in particolare, vivono una condizione di libertà parziale, ostacolata da discriminazioni strutturali e culturali. Secondo quanto evidenziato dal XXVI Rapporto del CNEL (Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro) sul mercato del lavoro e la contrattazione collettiva, permangono gravi criticità nell’accesso all’occupazione, nella formazione professionale e nella partecipazione piena alla vita sociale. I numeri parlano chiaro: nonostante le normative e le dichiarazioni di principio, la realtà è fatta ancora troppo spesso di esclusione. La libertà di una società si misura dalla sua capacità di includere e una democrazia autentica è tale solo se riesce ad abbattere ogni ostacolo che impedisce ai cittadini e alle cittadine – tutti e tutte – di contribuire al bene comune, di autodeterminarsi, di vivere con dignità. Il significato profondo del 25 Aprile va oltre la ricorrenza storica. La Resistenza è stata una straordinaria esperienza di partecipazione e solidarietà, in cui donne e uomini, provenienti da contesti diversi, hanno unito le forze per conquistare la libertà e la giustizia. Oggi, quell’eredità ci chiede di proseguire la lotta per i diritti civili e sociali, in nome di quella stessa libertà che fu conquistata allora con il sacrificio e il coraggio. Liberiamoci dai pregiudizi. Liberiamoci dalle barriere. Liberiamoci dai silenzi. Questo è il senso attuale del 25 Aprile: un invito a rimuovere ogni ostacolo che impedisce a una parte della cittadinanza – come le persone con disabilità – di accedere pienamente alla vita democratica e sociale del Paese. Celebrare oggi la Festa della Liberazione significa dunque anche rilanciare un progetto di società aperta, solidale, inclusiva. Significa riconoscere che il cammino della democrazia è ancora in corso, e che non possiamo dirci davvero liberi finché qualcuno resta ai margini. Il 25 Aprile è memoria, ma è anche impegno quotidiano. È una chiamata alla responsabilità collettiva, affinché la libertà non sia solo un valore scritto nella Costituzione, ma una realtà vissuta da ogni persona, senza distinzioni, senza esclusioni, senza eccezioni.
Un programma di umanità, che ora è nelle nostre mani
Papa Francesco ha rappresentato, per milioni di persone, una voce limpida e coraggiosa a favore della dignità umana e tra i tanti temi che ha affrontato con determinazione e sensibilità, il suo rapporto con le persone con disabilità ha segnato una svolta profonda nella visione della Chiesa, e non solo. Infatti, non ha mai considerato le persone con disabilità come destinatarie passive di attenzione o assistenza, ma le ha riconosciute come persone pienamente partecipi, con un ruolo attivo nella società e nella comunità ecclesiale. «Ogni persona, con le sue fragilità, è un dono. Non esistono vite meno degne di essere vissute», diceva con forza. Per Papa Francesco la disabilità non è mai stata un “limite”, ma una forma concreta della diversità umana, che chiede di essere accolta con rispetto e non compatita. Ha parlato spesso di barriere: non solo architettoniche, ma soprattutto culturali, spirituali e psicologiche. Barriere che isolano, che impediscono l’accesso alla piena partecipazione alla vita, alla fede, all’educazione. In ogni suo gesto, in ogni parola, ha cercato di ricucire relazioni, di abbattere distanze, di restituire voce a chi per troppo tempo era rimasto invisibile. Nel suo magistero, Papa Francesco ha messo in evidenza come le fragilità umane siano un terreno fertile per esprimere il vero carisma della Chiesa. Non ha semplicemente affrontato la disabilità come un tema tecnico, ma ha trasformato questo argomento in una metafora potente di giustizia ed equità, in grado di arricchire profondamente la cultura ecclesiale. Le fragilità, per lui, non sono da evitare o da nascondere, ma da riconoscere come una dimensione imprescindibile della condizione umana, che rende ogni persona unica e degna di rispetto. Ha messo in discussione il modello sociale che misura il valore di un individuo solo sulla base della produttività, invitando la Chiesa a diventare il luogo in cui l’inclusione non è solo un principio astratto, ma una pratica quotidiana che riflette l’amore di Dio per ogni essere umano. Questa visione non solo ha cambiato l’approccio della Chiesa verso le persone con disabilità, ma ha anche offerto alla società un nuovo paradigma, più giusto e più umano, in cui le barriere, siano esse fisiche, sociali o culturali, vanno abbattute in nome della dignità di ciascuna persona. In altre parole, tutto ciò che è costruito, sia che si tratti di uno spazio urbano, sia che si tratti di una comunità, deve essere pensato per tutti, non adattato dopo. E Papa Francesco ha ricordato che l’inclusione non è un favore, non è una semplice concessione, ma un diritto che deve essere rispettato e garantito. La sua morte lascia un vuoto profondo, ma anche un’eredità incancellabile. Le sue parole, i suoi abbracci, il suo sguardo capace di incontrare senza giudicare, continueranno a vivere in ognuno di noi. Ci lascia una Chiesa più consapevole, più aperta, più vicina alle fragilità. E ci affida una responsabilità: non lasciare cadere il suo insegnamento, non smettere di costruire un mondo dove davvero nessuno sia escluso. Ricordo i miei personali incontri, ricordo alcune sue parole su tutte: «La carrozzina che utilizzi non è ciò che ti definisce ma è uno strumento che, insieme a te, diventa veicolo di libertà». L’eredità di Papa Francesco non è solo spirituale. È un programma di umanità. Ed è ora nelle nostre mani.
Luca Pancalli al Coni? La persona giusta al posto giusto.
Dopo tre mandati, Giovanni Malagò dovrebbe terminare la sua presidenza al Coni. Per ora sono tre i candidati: prima sfida, le Olimpiadi invernali di Milano-Cortina. «Luca Pancalli, presidente del Cip, è la figura più autorevole, preparata e visionaria per guidare il sistema sportivo italiano verso una nuova stagione, fondata su principi di inclusione, equità e innovazione» La persona giusta al posto giusto, Vincenzo Falabella, Presidente Fish_Ets e Consigliere CNEL, esprime il proprio pieno sostegno alla candidatura di Luca Pancalli – presidente del Comitato paralimpico – alla guida del Comitato Olimpico Nazionale Italiano. In un momento storico in cui lo sport si trova di fronte a sfide epocali, sia in termini organizzativi che di significato sociale, riteniamo che Pancalli rappresenti la figura più autorevole, preparata e visionaria per guidare il sistema sportivo italiano verso una nuova stagione, fondata su principi di inclusione, equità e innovazione. Un percorso che parla da sé La biografia personale e professionale di Luca Pancalli è, di per sé, un manifesto di competenza e resilienza. Campione paralimpico, dirigente sportivo di alto profilo, uomo delle istituzioni, Pancalli ha attraversato e modellato il mondo dello sport portandovi un cambiamento reale e duraturo. La sua è una leadership fondata su fatti, non su parole: sotto la sua presidenza, il Comitato Italiano Paralimpico ha conosciuto una crescita senza precedenti, sia sul piano sportivo che su quello istituzionale, diventando una realtà autonoma e riconosciuta dalla legge, e soprattutto un modello virtuoso di gestione, visione strategica e impatto sociale. La Legge 124/15 sul riordino della Pubblica Amministrazione e il successivo Decreto Legislativo 43/17 hanno sancito il riconoscimento del Cip come ente pubblico autonomo, con le stesse finalità del Coni, ma con un focus specifico sull’attività sportiva per le persone con disabilità. Questo risultato, che ha segnato una svolta nella storia dello sport italiano, porta inequivocabilmente la firma di Luca Pancalli. Sport come diritto, non come privilegio L’articolo 30 della Convenzione delle Nazioni Unite sui Diritti delle Persone con Disabilità, ratificata dall’Italia con Legge n. 18/2009, afferma con chiarezza che le persone con disabilità devono poter partecipare, su base di uguaglianza con gli altri, alle attività ricreative, sportive e culturali. Questo principio è spesso enunciato ma raramente tradotto in azione concreta. Pancalli ha dimostrato, con il suo lavoro, che è possibile trasformare questi diritti in pratiche accessibili, in strutture realmente inclusive, in programmi di promozione sportiva che abbracciano l’intero territorio nazionale, coinvolgendo scuole, associazioni, enti locali e famiglie. Ha messo lo sport al servizio delle persone, e non il contrario. Ha restituito dignità a un’idea di sport che non è solo competizione, ma anche cura, relazione, educazione e cittadinanza attiva. La sfida culturale dello sport italiano In un tempo segnato da disuguaglianze crescenti, crisi sociali e nuove fragilità, lo sport deve ripensarsi come strumento di coesione, dialogo e partecipazione. Pancalli ha sempre sostenuto – con coraggio e coerenza – una visione dello sport come bene comune, capace di attraversare le barriere, di rigenerare legami sociali, di promuovere un modello di sviluppo umano e sostenibile. Non si tratta soltanto di estendere l’accesso allo sport alle persone con disabilità. Si tratta di cambiare il paradigma: mettere al centro la persona, con la sua unicità, e riformulare le politiche sportive in modo realmente universale. Pancalli ha già dimostrato di saperlo fare. Il suo operato ha avuto ricadute concrete: ha formato generazioni di dirigenti, ha dialogato con il mondo della scuola, ha coinvolto la sanità, ha lavorato con i territori. Tutto questo senza mai perdere di vista la visione generale, quella che guarda al sistema sportivo italiano come a un grande motore di trasformazione sociale. Una candidatura che unisce La candidatura di Luca Pancalli è anche una candidatura che unisce mondi spesso frammentati: sport olimpico e paralimpico, scuola e territorio, istituzioni e terzo settore, diritti civili e performance atletica. Il suo profilo è garanzia di equilibrio, capacità di mediazione, autorevolezza nazionale e internazionale. Il suo stile di leadership è basato sull’ascolto, sulla concretezza, sulla competenza. Come affermava Pierre de Coubertin, fondatore dei Giochi Olimpici moderni, «Lo sport non costruisce il carattere. Lo rivela». E Pancalli, attraverso il suo percorso umano e professionale, ha rivelato con coerenza un carattere fatto di determinazione, etica e servizio al bene comune. Un appello al mondo politico e sportivo Alla luce di tutto questo, rivolgiamo un appello forte e chiaro al mondo politico-sportivo italiano, alle istituzioni e ai soggetti che hanno la responsabilità della scelta per il futuro del Coni: è il momento di fare una scelta coraggiosa e lungimirante. Sostenere la candidatura di Luca Pancalli significa restituire allo sport italiano la sua più alta vocazione: quella di essere motore di crescita culturale, sociale ed economica, nel segno dell’inclusione e della giustizia. È il momento di superare ogni barriera, reale o simbolica, e affidare la guida del sistema sportivo a chi ha dimostrato di sapere costruire ponti e abbattere muri. La credibilità, la visione strategica e l’impegno civile di Luca Pancalli sono oggi risorse preziose, non solo per il mondo dello sport, ma per l’intero Paese. Per questo, la Federazione Italiana per i Diritti delle Persone con Disabilità e Famiglie sostiene con determinazione questa candidatura. Con l’auspicio che il Coni possa aprire una nuova fase della sua storia, sotto la guida di una figura che ha fatto della promozione dei diritti e dell’inclusione la propria missione quotidiana.
Il potere dello sport nel creare inclusione
L’inclusione delle persone con disabilità nello sport non riguarda solo l’accessibilità, ma rappresenta una piena affermazione di diritti e opportunità: è questo il cuore del documento Diritto e sport per le persone con disabilità, elaborato per il CNEL (Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro) da Vincenzo Falabella, consigliere dello stesso CNEL, al cui interno coordina l’Osservatorio Inclusione e Accessibilità, nonché presidente della FISH (Federazione Italiana per i Diritti delle Persone con Disabilità e Famiglie) e da Maria Paola Monaco, docente associata di Diritto del Lavoro all’Università di Firenze (se ne legga già anche una nostra ampia presentazione a questo link).Nell’intervista che segue, analizziamo con lo stesso Vincenzo Falabella i cambiamenti culturali e normativi necessari per garantire una partecipazione equa e paritaria delle persone con disabilità allo sport, affrontando questioni legate all’accessibilità delle strutture, alla trasformazione dello stigma culturale e alla costruzione di un sistema multidisciplinare più integrato. Un contributo che mostra come lo sport possa diventare un potente strumento di inclusione reale e universale. Sport come diritto universale, non più inteso come mero strumento riabilitativo: è un concetto che viene spesso sottolineato nella vostra pubblicazione. Le chiedo: come garantire l’effettiva inclusione delle persone con disabilità nello sport? Quali passi sono ancora necessari per superare la mentalità assistenzialistica e promuovere modelli sportivi più inclusivi e accessibili? «Per garantire l’inclusione reale delle persone con disabilità nello sport, è necessario agire su più livelli, che di seguito cerco di elencare per punti: ° Accessibilità strutturale, ossia piste, piscine, palestre e attrezzature che devono essere progettate per tutti e tutte, seguendo il principio dell’Universal Design (“progettazione universale”). Ad esempio, in Norvegia, molte stazioni sciistiche offrono sit-ski gratuiti e percorsi accessibili. ° Formazione degli operatori: allenatori e staff devono essere formati su disabilità e adattamenti, non solo in ottica riabilitativa, ma anche agonistica. ° Superare lo stigma culturale: spesso si vede lo sport per persone con disabilità come “terapia” e non come competizione o passione. Servono dunque campagne mediatiche che normalizzino atleti paralimpici (come Bebe Vio o Alex Zanardi) e li mostrino come professionisti, non come “eroi per forza”. ° Modelli ibridi: esempi come il basket in carrozzina misto (atleti con disabilità e atleti non in condizione di disabilità) o il para-cycling dimostrano che l’inclusione può essere realmente sportiva e non solo simbolica». La riforma introdotta dal Decreto Legislativo 36/21 (consultabile a questo link) ha affrontato temi importanti come il riconoscimento delle carriere sportive e gli accomodamenti ragionevoli. Quali sono, secondo lei, gli aspetti più innovativi di questa riforma e quali le principali lacune ancora da colmare? «Finalmente si considera l’atleta paralimpico alla stregua di quello olimpico, con diritti pensionistici e tutele. Poi c’è l’obbligo di adeguare strutture e regolamenti (ad esempio, tempi più lunghi per le qualifiche se necessari) e pari opportunità negli incentivi, in quanto i fondi statali devono sostenere equamente progetti paralimpici e olimpici. Questi sono tutti aspetti innovativi. Per quanto riguarda le lacune, ne individuo tre: mancano sanzioni efficaci per chi non applica le norme (ad esempio, palestre che rifiutano atleti con disabilità), la scarsa copertura finanziaria per protesi e attrezzature sportive high-tech, ancora a carico del singolo, e infine lo scarso coinvolgimento delle Regioni, con disparità territoriali nell’offerta sportiva inclusiva». Nel documento elaborato per il CNEL si fa riferimento alle protesi sportive come strumenti di lavoro e alla loro erogazione pubblica. Quali benefìci concreti sono previsti per gli atleti con disabilità? «Se le protesi fossero erogate dal Servizio Sanitario Nazionale come “strumenti di lavoro” (per atleti professionisti o amatoriali), si avrebbe una riduzione del divario economico – basti pensare che una protesi da corsa può costare decine di migliaia di euro, escludendo molti talenti -, ma anche un miglioramento prestazionale, in quanto attrezzature adeguate (ad esempio, lame per atletica o stabilizzatori per sci) permettono di competere alla pari; infine, protesi ben calibrate evitano infortuni da sovraccarico, un problema comune per chi usa dispositivi inadatti. In Germania, il sistema sanitario copre il 90% del costo delle protesi sportive se riconosciute necessarie per l’attività». Sempre in Diritto e sport per le persone con disabilità si sottolinea l’importanza di una cabina di regia multidisciplinare e di una rete attiva sul territorio. Quali strategie servono per un’effettiva collaborazione tra enti pubblici, servizi sanitari e associazioni sportive? «Per una rete efficace tra enti pubblici, sanitari e associazioni occorrono tavoli permanenti, ovvero creare gruppi di lavoro con medici, allenatori, atleti e politici, per co-progettare interventi (ad esempio il modello dei PARA Sport Hub nel Regno Unito). Poi dati condivisi: una banca dati unica su impianti accessibili, finanziamenti e buone prassi eviterebbe dispersione. E ancora, penso ad incentivi fiscali, premiando le società sportive che investono in inclusione con sgravi per palestre con corsi misti. Infine, sanità e sport devono essere integrati: in altre parole, fisiatri e ortopedici dovrebbero prescrivere l’attività sportiva come parte del percorso di cura, non solo la riabilitazione passiva». Lei pratica sport? «Prima della lesione midollare sono stato uno sportivo professionista, dopo la lesione midollare mi sono dedicato con impegno concreto a rivendicare e a difendere i diritti delle persone con disabilità. Questo mio ruolo oggi mi porta via moltissimo tempo, non riesco a conciliare le due cose. Oggi, pur dedicandomi principalmente alla tutela dei diritti, continuo a coltivare la mia passione per lo sci durante l’inverno, trovando in questa disciplina non solo un momento di svago, ma anche un’importante fonte di benessere e di riconnessione con la mia identità di sportivo».
Il disegno di legge sulle prestazioni sanitarie? Una minaccia per le persone con disabilità
Il disegno di legge “Misure di garanzia per l’erogazione delle prestazioni sanitarie” e, in particolare, l’emendamento n. 13.0.400 in discussione, sollevano gravi preoccupazioni. Questa proposta non solo rischia di minare i principi fondanti del nostro sistema sanitario, ma mette in serio pericolo i diritti delle persone più vulnerabili, tra cui le persone con disabilità. La salute, come sancito dall’articolo 32 della Costituzione, è un diritto universale, garantito dallo Stato, che non può essere subordinato a criteri economici. Tuttavia, questo emendamento introduce una serie di cambiamenti che potrebbero trasformare questo diritto in un privilegio per pochi. Il provvedimento in esame permetterebbe ai fondi sanitari integrativi di erogare prestazioni anche per quelle parzialmente coperte dai Livelli Essenziali di Assistenza (Lea). Questo non solo creerebbe una duplicazione dei servizi, ma finirebbe per generare un’enorme confusione nei percorsi di cura. Di fatto, il sistema sanitario rischia di frammentarsi ulteriormente, creando un sistema a due velocità: uno per chi ha accesso ai fondi privati e uno per chi dipende esclusivamente dal sistema pubblico. È chiaro che le disuguaglianze nell’accesso alle cure aumenterebbero, contravvenendo al principio costituzionale di un servizio sanitario che deve essere accessibile a tutti, senza distinzioni. Oggi, più che mai, la disabilità comporta un costo aggiuntivo che ricade principalmente sulle persone e sulle loro famiglie. Molte persone con disabilità devono affrontare spese extra per l’acquisto di dispositivi, assistenze specialistiche e, in molti casi, cure costanti. Con l’introduzione di misure che favoriscono i fondi privati, come nel caso dell’emendamento, questo costo ulteriore diventa insostenibile. Le famiglie, già provate dalla gestione quotidiana della disabilità, si troverebbero a dover sostenere oneri aggiuntivi per garantire il diritto alla salute dei propri cari. Questo peggiorerebbe ulteriormente la loro condizione, con il rischio che molti non possano più permettersi cure adeguate. Il rischio è che la sanità, anziché continuare ad essere un servizio pubblico, universale e gratuito, venga progressivamente trasformata in una merce per pochi, riservata a chi può permettersela. Le persone più fragili, quelle che già affrontano difficoltà quotidiane legate alla loro condizione di disabilità, rischiano di essere le prime vittime di questa riforma. È inaccettabile che le disuguaglianze sociali e economiche diventino ancora più marcate nel settore sanitario. La disabilità, che di per sé è una condizione che comporta difficoltà, non può e non deve essere ulteriormente penalizzata da politiche che pongono ostacoli economici all’accesso alle cure. Oggi più che mai, il sistema sanitario deve essere preservato nella sua natura pubblica e universale, come sancito dalla nostra Costituzione. La salute deve essere garantita a tutti, indipendentemente dal reddito, dalla condizione sociale o da altre variabili. L’articolo 32 della Costituzione stabilisce chiaramente che “la Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività”. Il nostro impegno deve essere quello di garantire l’accesso alle cure per tutti, e non quello di rendere la salute un bene di consumo, accessibile solo a chi può permettersi di pagare per cure private. La riforma proposta, che in realtà non è altro che una frammentazione del sistema sanitario, rischia di creare un sistema disuguale, dove la salute diventa un lusso per chi può permetterselo e una lotta quotidiana per chi, invece, dipende esclusivamente dal sistema pubblico. È necessario, invece, un intervento che rafforzi il sistema sanitario pubblico, che garantisca l’accesso alle cure per tutti, in particolare per le persone più vulnerabili, come quelle con disabilità. Non possiamo permettere che il diritto alla salute venga ridotto a un privilegio. È fondamentale che il legislatore comprenda l’impatto devastante che questo emendamento potrebbe avere sulla vita quotidiana delle persone con disabilità e delle loro famiglie, e apra un dibattito serio e approfondito per trovare soluzioni che non intacchino i diritti di nessuno. La sanità deve essere universale, accessibile e gratuita, e deve essere in grado di rispondere alle esigenze di tutti i cittadini, senza alcuna distinzione. Non possiamo permettere che il sistema sanitario diventi una merce in vendita. La salute è un diritto, non un privilegio.
Non va messo a rischio il diritto alla libertà di scelta dei presìdi sanitari!
La libertà di scelta per le persone con disabilità di individuare i presìdi sanitari e gli ausili più adatti alle proprie esigenze è un diritto sancito dal sistema normativo italiano, in particolare dall’Allegato 11 (Modalità di erogazione dei dispositivi medici monouso) al Decreto del Presidente del Consiglio (DPCM) del 12 gennaio 2017 che ha fissato i nuovi LEA (Livelli Essenziali di Assistenza). Tale documento stabilisce infatti che le persone con disabilità, tra cui quelle stomizzate e cateterizzate, abbiano il diritto di ricevere dispositivi medici personalizzati, in grado di rispondere alle loro necessità cliniche specifiche. E tuttavia, con l’introduzione della recente modifica all’articolo 59 del cosiddetto “Codice degli Appalti” (Decreto Legislativo 36/23), questo diritto fondamentale potrebbe essere messo in discussione, con conseguenze gravi sulla qualità della vita delle persone di cui si è detto. L’Allegato 11 al DPCM del 12 gennaio 2017, dunque, era stato concepito per garantire che le persone con disabilità potessero scegliere liberamente i presìdi sanitari necessari per la propria cura. La norma sottolineava infatti l’importanza di garantire che le scelte in àmbito sanitario non fossero limitate a opzioni standardizzate o imposte, ma bensì basate sulle esigenze cliniche e personali del paziente. Un diritto, questo, di valenza fondamentale per la dignità del paziente, poiché ogni persona ha esigenze specifiche legate alla propria condizione fisica, alle preferenze personali e alla qualità della vita che intende preservare. Ad esempio, nel caso delle persone stomizzate, la scelta del presidio giusto non è solo una questione di efficacia terapeutica, ma anche di comfort e prevenzione di complicazioni, quali infezioni o irritazioni cutanee. Lo stesso discorso vale per coloro che praticano il cateterismo, per i quali l’utilizzo di un dispositivo inadeguato può compromettere la salute, portando a conseguenze anche molto gravi. Ebbene, il nuovo “Codice degli Appalti”, con l’introduzione dell’articolo 59 modificato, ha imposto l’obbligo di stabilire percentuali rigide di aggiudicazione delle forniture in tutti gli accordi quadro con più operatori economici. Sebbene l’intento della norma sia quello di garantire maggiore trasparenza e prevedibilità nelle procedure di appalto, il risultato potrebbe invece essere un ostacolo significativo per il diritto dei pazienti di scegliere liberamente il presidio sanitario più adatto. L’obbligo di definire le percentuali di affidamento rischia infatti di ridurre la libertà di scelta, costringendo le persone a rivolgersi a determinati fornitori anche se i presìdi offerti non sono i più adeguati alle loro esigenze. Questo scenario potrebbe pertanto portare a situazioni in cui il paziente è costretto a utilizzare dispositivi che non rispondono alle sue specifiche necessità cliniche, con conseguente peggioramento della qualità della vita e, in alcuni casi, come già accennato, all’aggravarsi delle sue condizioni di salute. Inoltre, la gestione delle percentuali di affidamento per ciascun operatore economico potrebbe introdurre un’eccessiva burocratizzazione del sistema, con ritardi e inefficienze che sarebbero di ostacolo all’accesso tempestivo ai necessari dispositivi sanitari. Vale dunque la pena di ribadirlo con forza: modificare nel senso indicato l’articolo 59 del DPCM del 12 gennaio 2017 potrebbe compromettere gravemente la qualità della vita delle persone con disabilità, in particolare quelle stomizzate o cateterizzate. La libertà di scelta, infatti, non è solo una questione teorica, ma, come detto, un aspetto pratico e fondamentale per il benessere del paziente. In altre parole, fornire un presidio sanitario inappropriato, o limitare appunto la possibilità di scelta, significa negare un diritto inalienabile che garantisce a ogni individuo il miglior trattamento possibile in base alle proprie necessità fisiche e psicologiche. E questo perché un’errata gestione delle forniture, basata su logiche economiche e percentuali di aggiudicazione, rischia di trasformare il paziente in un numero, anziché mettere al centro la sua salute, all’insegna di un approccio che potrebbe minare il principio di appropriatezza nelle cure, portando a un sistema sanitario incapace di rispondere alle reali esigenze di chi necessita di trattamenti personalizzati. In conclusione, riteniamo senz’altro che l’introduzione di percentuali rigide di aggiudicazione, pur mirando ad aumentare la trasparenza, rischierebbe di compromettere un principio fondamentale del nostro sistema sanitario, ossia l’appropriatezza delle cure. Come FAIP (Federazione delle Associazioni Italiane di Persone con Lesione al Midollo Spinale), insieme alla FAIS (Federazione Associazioni Incontinenti e Stomizzati) e alla FISH (Federazione Italiana per i Diritti delle Persone con Disabilità e Famiglie), cui le stesse FAIP e FAIS aderiscono, lanciamo dunque un appello per una revisione urgente della modifica all’articolo 59 del “Codice degli Appalti”, per garantire che il diritto alla libertà di scelta dei presìdi sanitari resti al centro del processo decisionale. È essenziale, infatti, che le normative sugli appalti in àmbito sanitario vengano ripensate, per preservare la centralità del paziente e assicurare che le persone con disabilità possano sempre accedere ai dispositivi più adatti alle loro esigenze, senza limitazioni imposte da logiche di mercato o rigidità burocratiche. Solo così si potrà continuare a garantire che le stesse persone con disabilità possano avere una vita dignitosa, con accesso a trattamenti personalizzati che rispondano alle loro reali necessità, in pieno rispetto dei diritti fondamentali sanciti dalla Costituzione. La salute dei cittadini non può essere messa a rischio da regolamenti che non tengono conto della variabilità delle condizioni di salute e della necessità di una cura individualizzata!
L’Italia ha gli anticorpi per combattere le discriminazioni
Imbecilli, idioti e ritardati: così il governo del presidente argentino Javier Milei parlerà delle persone con disabilità nei documenti ufficiali e nelle pratiche che li riguardano. Una riflessione sulla situazioni italiana: «Grazie alla Costituzione, alla ratifica della Convenzione Onu e al lavoro decennale del movimento associativo, qui abbiamo gli anticorpi per reagire alle discriminazioni» Le recenti dichiarazioni del governo argentino guidato da Javier Milei, che nei documenti ufficiali, nelle pratiche che li riguardano e nelle classificazioni andrà a definire le persone con disabilità come “idioti”, “imbecilli” e “ritardati”, hanno suscitato indignazione a livello internazionale. Tali insulti non solo sono gravemente offensivi, ma rivelano anche una visione retrograda e discriminatoria nei confronti di una parte vulnerabile della popolazione, che meriterebbe invece sostegno, rispetto e piena inclusione. Le parole del governo argentino non rappresentano un semplice errore linguistico, ma sono il riflesso di un atteggiamento politico che potrebbe minare i progressi fatti nel garantire i diritti delle persone con disabilità e nel favorire la loro integrazione sociale. A livello internazionale, queste dichiarazioni contrastano fortemente con i principi sanciti dalla Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità (Crpd), un trattato che impegna gli Stati firmatari a garantire l’uguaglianza, il rispetto e la dignità di tutte le persone con disabilità. La Convenzione, adottata nel 2006, stabilisce che le persone con disabilità debbano godere dei diritti umani e delle libertà fondamentali in condizioni di parità con gli altri. In particolare, l’articolo 1 sottolinea che l’obiettivo è «promuovere, proteggere e assicurare il godimento di tutti i diritti umani e le libertà fondamentali per tutte le persone con disabilità», mentre l’articolo 8 evidenzia l’importanza di combattere gli stereotipi e le discriminazioni basate sulla disabilità. Le dichiarazioni di Milei non solo violano questi principi, ma rischiano di rafforzare pregiudizi e discriminazioni radicate nella società, ostacolando l’inclusione delle persone con disabilità in ogni ambito della vita. In Argentina, e non solo, queste affermazioni hanno sollevato giustamente preoccupazioni circa le politiche pubbliche riguardanti i diritti delle persone con disabilità. Il linguaggio denigratorio utilizzato dai rappresentanti del governo potrebbe aprire la strada a politiche che non solo non favoriscono l’inclusione sociale, ma potrebbero anche aggravare la marginalizzazione di queste persone. Le organizzazioni che operano nel campo dei diritti delle persone con disabilità temono che la retorica politica di Milei possa avere ripercussioni pratiche, riducendo l’accesso a servizi essenziali come l’istruzione, la sanità e l’integrazione lavorativa. Le parole di Milei potrebbero avere effetti in Italia? Le dichiarazioni di Milei non avranno un impatto diretto nel nostro Paese. Questo non solo per la solida cultura italiana di inclusività, ma anche grazie all’impegno formale assunto dal nostro paese con la ratifica della Convenzione Onu sui diritti delle persone con disabilità. L’Italia ha firmato e ratificato il trattato nel 2009, impegnandosi a garantire i diritti delle persone con disabilità e a promuovere politiche che ne favoriscano l’integrazione. Il nostro ordinamento giuridico tutela i diritti delle persone con disabilità, in particolare attraverso l’articolo 3 della Costituzione Italiana, che sancisce il principio di uguaglianza tra tutti i cittadini, senza distinzione di condizione fisica o mentale. La Costituzione afferma che «è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che limitano la libertà e l’uguaglianza dei cittadini» (art. 3, comma 2), principio che include le persone con disabilità, garantendo loro pari opportunità sociali, economiche e politiche. L’Italia, da anni, ha adottato leggi e politiche che favoriscono l’inclusione delle persone con disabilità, come la legge 104 del 1992, che promuove la loro partecipazione attiva nella società. Questa legge prevede misure volte a garantire l’accessibilità, l’integrazione scolastica, l’inclusione nel mondo del lavoro e il miglioramento della qualità della vita, in linea con i principi della Convenzione Onu. Il ruolo del movimento associativo Un elemento fondamentale di questo progresso è rappresentato dal lavoro instancabile del movimento associativo italiano. Le numerose associazioni che operano in questo settore, molte delle quali radicate nella storia sociale e culturale del nostro Paese, svolgono un ruolo cruciale nel costruire una cultura di uguaglianza e inclusione. Queste organizzazioni, che coinvolgono milioni di persone, famiglie e professionisti, sono protagoniste non solo nell’assicurare l’accesso a servizi e opportunità, ma anche nel promuovere una visione della società che valorizza e rispetta le differenze. Il movimento associativo italiano è sempre in prima linea nel sensibilizzare l’opinione pubblica e nel fare pressione sulle istituzioni affinché vengano adottate politiche rispondenti alle reali esigenze delle persone con disabilità. Le campagne di sensibilizzazione, le attività educative nelle scuole, i progetti di inclusione sociale e le iniziative legali a tutela dei diritti sono solo alcune delle azioni che combattono quotidianamente la discriminazione. Questo impegno continuo ha contribuito a mantenere alta l’attenzione sulle tematiche della disabilità, stimolando un dibattito pubblico che ha portato a un ripensamento delle politiche sociali e alla diffusione di una cultura che riconosce le persone con disabilità come parte integrante della comunità. In tal modo, l’Italia ha consolidato una visione più inclusiva e giusta, dove i diritti delle persone con disabilità sono considerati essenziali per la giustizia sociale. Anche di fronte a episodi come le dichiarazioni di Milei, il movimento associativo italiano continua a rappresentare una forza determinante per garantire che ogni persona, indipendentemente dalla sua condizione, possa vivere una vita piena e dignitosa. Anche di fronte a episodi come le dichiarazioni di Milei, il movimento associativo italiano continua a rappresentare una forza determinante per garantire che ogni persona, indipendentemente dalla sua condizione, possa vivere una vita piena e dignitosa La solidità culturale dell’Italia in tema di disabilità si fonda su un impegno profondo verso i principi costituzionali di uguaglianza e solidarietà. Le politiche italiane, pur con margini di miglioramento, sono orientate a rafforzare l’inclusione sociale e l’uguaglianza delle persone con disabilità. In questo contesto, le dichiarazioni di Milei non intaccheranno la consapevolezza e l’impegno della nostra società, che continua a promuovere un modello di civiltà e giustizia sociale, dove ogni persona, indipendentemente dalle sue condizioni fisiche o mentali, ha diritto a una vita piena e dignitosa. Le provocazioni e gli anticorpi Tuttavia, è importante sottolineare che l’Italia, pur avendo compiuto significativi progressi, non è immune da situazioni simili a quelle verificatesi in Argentina.
Povertà e disabilità, si può fare (molto) di più.
Intervista al presidente di FISH, e Consigliere CNEL Vincenzo Falabella “Le persone con disabilità e le loro famiglie si impoveriscono economicamente. E l’impoverimento economico diventa quasi sempre impoverimento sociale, emarginazione, a volte segregazione.” Con queste parole, Vincenzo Falabella, presidente di FISH (Federazione Italiana per il Superamento dell’Handicap) e Consigliere CNEL, sintetizza un problema che tocca migliaia di famiglie in Italia: l’intreccio tra povertà e disabilità. “Una situazione aggravata da politiche di sostegno insufficienti e da un sistema di welfare che spesso si limita a fornire aiuti economici senza affrontare realmente le cause profonde dell’emarginazione – spiega – Il sistema di welfare italiano ha bisogno di una riforma strutturale, capace di garantire un sostegno equo e realmente inclusivo. Penalizzare economicamente chi vive già una condizione di svantaggio è una scelta miope e ingiusta. È tempo di smettere di trattare la disabilità come una categoria marginale e di riconoscere che l’inclusione non è un privilegio, ma un diritto fondamentale”. Presidente Falabella, le misure attuali riescono a ridurre la povertà tra le persone con disabilità? Assolutamente no. Le politiche messe in campo sono puramente risarcitorie: invece di valorizzare la persona, si limitano a compensare le condizioni di disagio in cui essa si trova a vivere. Questo vale per la generalità degli interventi rivolti alle persone con disabilità e alle loro famiglie. Lo abbiamo visto chiaramente durante la pandemia: il sistema di welfare non ha protetto chi ne aveva più bisogno, ovvero le persone vulnerabili. Questa mancanza di protezione ha avuto conseguenze pesantissime, non solo per le persone con disabilità, ma anche per i loro familiari. Qual è la condizione dei caregiver familiari, soprattutto in relazione alla povertà? Oggi in Italia il caregiver familiare non è riconosciuto né tutelato da una normativa adeguata, se non attraverso interventi spot e frammentari. Questa assenza di tutele ha un impatto devastante: molte persone, soprattutto donne, lasciano il lavoro per dedicarsi all’assistenza, con conseguenze economiche gravissime, ma anche con un forte rischio di isolamento sociale. Servono misure strutturali e lungimiranti, che permettano ai caregiver di scegliere se dedicarsi esclusivamente all’assistenza o di inserirsi (o reinserirsi) nel mondo del lavoro. Non possiamo più accettare che questa figura venga ignorata o marginalizzata. Il problema è solo economico? Lo Stato deve investire di più? Non è solo una questione di soldi. Negli ultimi anni la spesa sociale è aumentata esponenzialmente, ma questo non ha portato a un miglioramento reale delle condizioni di vita. Il motivo? Le esigenze e i bisogni delle persone sono cresciuti, ma le risposte fornite dallo Stato sono rimaste inadeguate. Serve un cambio di prospettiva: il welfare non deve essere solo assistenziale, ma deve valorizzare la persona nella sua interezza. Questo significa creare politiche mirate per istruzione e lavoro, perché senza accesso al mondo scolastico prima, e a quello lavorativo poi, l’inclusione resta un miraggio. Bisogna poi abbassare il costo del lavoro, perché oggi la pressione fiscale colpisce duramente anche i lavoratori con disabilità, rendendo ancora più difficile la loro integrazione professionale. Le misure contro la povertà raggiungono davvero le persone con disabilità? No, perché si tratta di interventi tampone, meri trasferimenti economici che risolvono la situazione solo momentaneamente. Invece di erogare “mance e mancette”, dovremmo costruire politiche che permettano alle persone con disabilità di essere produttive e quindi autonome. Tra una persona povera che riceve un sussidio e una persona povera che viene accompagnata a diventare parte attiva della società, non ho dubbi: preferisco la seconda. La legge 85/2023 ha incluso le persone con disabilità tra i destinatari delle nuove misure di contrasto alla povertà. È un passo avanti o un rischio? È sicuramente un passo in avanti, ma non cadrei nell’errore concettuale di categorizzare le persone per evitare di scatenare una guerra tra poveri. C’è invece una criticità da risolvere: con il nuovo Assegno di Inclusione (Adi), come peraltro già accadeva con il Reddito di Cittadinanza, le persone con disabilità risultano penalizzate. Un esempio concreto: una persona con disabilità con gli stessi requisiti per accedere alla misura di una persona senza condizione di disabilità, riceve una somma inferiore in quanto già titolare di pensione di invalidità. Perché questa differenza? Il motivo è che la pensione di invalidità viene considerata una misura assistenziale e non previdenziale. Di conseguenza, viene decurtata dall’importo totale dell’Adi. In pratica, lo Stato tratta questa pensione come un “anticipo” di assistenza economica, riducendo di fatto il supporto garantito dall’Assegno di Inclusione. Questo meccanismo crea un paradosso inaccettabile: chi ha una disabilità, e quindi necessita di maggior supporto, si ritrova con meno risorse rispetto a chi non ha una condizione di disabilità. È inaccettabile, e dimostra che non siamo affatto privilegiati, anzi! Quali sono quindi le vostre richieste? 1. Misure univoche e universali, in linea con la nostra Carta costituzionale. 2. Politiche di intervento certe, con una platea chiara di destinatari. 3. Dati concreti e aggiornati, perché senza numeri reali è impossibile costruire strategie efficaci. 4. Superare gli interventi spot e tornare a pensare in termini di decenni, non di settimane. Abbiamo bisogno di una visione politica lungimirante, capace di guardare avanti e di costruire soluzioni durature. Solo così potremo garantire a tutte le persone, con e senza disabilità, la possibilità di vivere una vita piena e dignitosa.